Donnarumma preferisce Ibiza alla maturità: il problema della scuola sono ancora i ragazzi che perde

A distanza dalla celebre “Lettera” che i ragazzi di Barbiana scrissero per denunciare la situazione di esclusione di molti studenti dalla scuola dell’obbligo degli anni Cinquanta e Sessanta è giunta in questi giorni un’altra lettera, questa volta scritta dalla Ministra dell’Istruzione, su un tema molto simile. Se i ragazzi di Don Milani intendevano denunciare le modalità che la scuola attuava per allontanare i più poveri, la lettera della Ministra ha come interlocutore un giovane di 18 anni, il calciatore Gianluigi Donnarumma, che presto guadagnerà 6 milioni di euro (netti) l’anno. Se dovessimo calcolare quante vite servirebbero a un docente per guadagnare 6 milioni di euro impiegheremmo così tanto tempo che queste riflessioni non sarebbero più attuali. Meglio così, proseguiamo senza fare inutili (e dolorosi) calcoli.

Anche se il contesto è molto diverso, anche se a scrivere non sono una manciata di montanari appassionati di scuola, ma un ministro della Repubblica, anche se sono passati cinquant’anni il tema sembra essere però lo stesso: il problema della scuola sono i ragazzi che perde.

E allora, senza schierarsi con il giovane che rifiuta di svolgere gli esami di Stato, creando indignazione e rabbia (e a mio avviso anche un po’ di frustrazione) tra i docenti che erano lì ad aspettarlo o con la Ministra, che forse ha sfruttato la visibilità del giovani milionario per lanciare un messaggio certamente attuale (ragazzi, non mollate la scuola, il diploma è la chiusura di un percorso formativo), potremmo riflettere sul problema forse più drammatico della scuola italiana, cioè la dispersione scolastica.

In Italia gli ultimi dati mostrano che la dispersione scolastica è scesa al 15%, ma se osserviamo i numeri di Tuttoscuola vediamo come gli iscritti alle scuole statali nel quinquennio 2012/2017 siano scesi del 25% (dieci punti in più dei dati ufficiali). Ci rendiamo conto che questi dati non contemplano gli alunni che hanno deciso di passare nelle scuole paritarie, così come gli alunni che sono stati bocciati e che, di fatto, sono contestabili. Il focus del discorso, è però, un altro. Che sia il 15%, o anche peggio, il 25% la percentuale degli studenti italiani che abbandona la scuola senza concludere con un diploma è un dato preoccupante, anche se in calo. In Europa, come spesso accade, siamo nelle posizione peggiore. In Francia i dati ufficiali parlano del 9% di abbandoni, nel Regno Unito siamo al 10,8, in Austria al 7,3 e in Germania al 10,1. Peggio di noi sta solo la Spagna (20%) e la Romania (19,1%),

Come arginare questo problema, che, anche se in calo, è ancora drammaticamente elevato? In primis dovremmo riflettere sul fatto che le scuole superiori presentano ancora grandi differenze. Dai dati che Tuttoscuola ha elaborato (lo ripetiamo, relativi solo alle scuole statali), si vede come la percentuale di alunni che nell’ultimo quinquennio non hanno completato il ciclo di studi si attesti al 16% per quanto riguarda i Licei classici, mentre schizzi al 28,2% per quanto riguarda gli istituti tecnici e addirittura al 33,34 per gli istituti professionali. Questo significa che circa un alunno su 3 che nel 2012 si è iscritto ad un istituto professionale non ce l’ha fatta a diplomarsi, almeno per ora. Non è dunque possibile fare un discorso globale, omogeneo, come se la scuola italiana fosse omologata per ordine o provenienza territoriale.

Si dovrebbero prevedere misure ad hoc per i vari ordini di scuola, in grado di rispondere ai diversi bisogni che gli alunni presentano e non uniformare le misure di contrasto alla dispersione. In altre parole, ben venga l’Alternanza Scuola Lavoro anche per i Licei, ma ricordiamoci che la percentuale più alta, almeno in base ai nostri dati, è relativa agli istituti professionali, che da anni svolgono attività di Alternanza Scuola Lavoro.

Una seconda misura di contrasto a questo problema potrebbe essere una diversa articolazione della didattica, ancora molto centrata sulla trasmissione di nozioni, soprattutto nelle scuole del secondo ciclo. Sempre più spesso si sente la necessita di parlare di una scuola comunità, che sia accogliente e capace di mettere gli studenti davanti a situazioni sfidanti. Ogni docente, nei vari corsi di formazione, avrà sentito parlare della zona di sviluppo prossimale di Vygotsky o del concetto di “scaffolding” di Bruner, ma la realtà dei fatti è un’altra. Aule ancora troppo piccole, lezione frontale come (spesso) unica modalità di organizzazione didattica, valutazione sommativa e poco spazio all’accompagnamento degli alunni che presentano maggiori difficoltà. I ragazzi che presentano maggiori difficoltà, di fatto, scappano da una scuola ancora poco su misura di tutti e di ciascuno.

A distanza da cinquant’anni, dunque, non solo i problemi continuano ad essere gli stessi, ma le soluzioni appaiono ancora lontane.

Il ragazzino che sceglie di non fare la maturità per volare ad Ibizia lo fa per un motivo solo: non crede che la scuola possa cambiare il suo futuro. A cambiarlo sarà probabilmente il suo procuratore, un ulteriore contratto, un rigore parato ai mondiali. Ci dispiace per lui, ha perso una grande opportunità. La realtà per centinaia di migliaia di studenti italiani è però un’altra. Chi non si diploma non lo fa per un ingaggio milionario, ma perché non ce la fa. Forse perché parla una lingua che non è la nostra, perché le difficoltà economiche e sociali sono troppe, o perché la scuola gli risulta ancora troppo difficile.

Ed ecco che ritornano le parole, ancora, della Lettera dei ragazzi Barbiana che ci ricorda che la scuola non deve essere un ospedale che cura i sani e respinge i malati. Forse è proprio questa la domanda centrale che possiamo porci: la nostra scuola riesce ad accogliere veramente tutti e curare i malati? È su questo terreno che si gioca la sfida della nostra scuola, sul destino degli ultimi.