Dispersione scolastica: riflessioni a margine del convegno ‘La scuola colabrodo’

Con questo articolo di Giorgio Allulli avviamo un confronto su come concretamente affrontare il problema della dispersione. Il dibattito è aperto al contributo di lettori ed esperti.

“Bene ha fatto Tuttoscuola a riaccendere i riflettori su un problema annoso e grave della scuola italiana come la dispersione scolastica. Il forte abbandono costituisce infatti una sconfitta del sistema educativo del nostro Paese ed un grave spreco di talenti umani e di risorse finanziarie. Anche il Convegno organizzato da Tuttoscuola ha confermato la gravità e l’importanza di questo problema, che richiede risposte non più rinviabili e strategie precise ed ha offerto numerosi stimoli alla riflessione che vorrei condividere su queste pagine.

È stato giustamente osservato nel Convegno che interventi di lotta alla dispersione non sono mancati. Tuttavia si è sempre trattato di interventi parziali, che non hanno affrontato alla radice il problema centrale, ovvero la scarsa motivazione di una parte dei giovani allo studio, specialmente nei confronti di uno studio percepito come lontano dai propri interessi e spesso proposto in modo astratto. E’ vero che l’abbandono trova le sue radici più profonde all’interno di situazioni di disagio materiale e culturale del contesto sociale e delle famiglie di origine, ma tuttavia esso trova poi terreno fertile nella debolezza organizzativa e culturale del sistema formativo italiano, che non riesce ad affrontare adeguatamente la richiesta di molti giovani di frequentare percorsi concreti. Nonostante i molti proclami e gli interventi messi in atto ancora assistiamo infatti ad alcune situazioni paradossali.

Il primo paradosso è di carattere culturale. Da una parte non c’è convegno o seminario nel quale non si senta affermare l’importanza dell’imparare attraverso il fare; non esiste testo di didattica o di psicologia dell’educazione o di teoria della conoscenza che non metta in evidenza la maggiore efficacia, per il processo di apprendimento, dell’imparare attraverso il fare, o che non metta in evidenza come la conoscenza stessa sia il risultato di un processo circolare tra l’esperienza e la riflessione sulla esperienza. Dall’altra parte, molti di coloro che sostengono la necessità di adottare metodologie attive di insegnamento, e dunque di porre l’esperienza al centro del processo di apprendimento, rifiutano quei percorsi formativi che non ricalcano le prassi scolastiche consolidate che prima forniscono le basi teoriche della scienza e della tecnica, e solo alla fine del percorso, eventualmente, si “sporcano le mani” con l’applicazione alla vile realtà. “Vile meccanico” era la sanguinosa offesa rivolta nei Promessi sposi a Lodovico, futuro Frà Cristoforo; questo tipo di considerazione negativa, se non sprezzante, nei riguardi di tutto ciò che è “pratico”o “applicativo” permea ancora oggi non solo la scuola, ma gran parte della cultura italiana, mentre le tassonomie dei processi cognitivi collocano invece la capacità di applicazione ad un livello superiore rispetto alla semplice conoscenza e comprensione della teoria; difatti solo chi è in grado di mettere in pratica l’insegnamento dimostra di aver compreso la teoria e solo attraverso l’applicazione e la verifica si e’ in grado di far progredire la teoria. La persistenza di metodologie didattiche di tipo deduttivo allontana inevitabilmente dallo studio quei giovani più portati all’apprendimento attraverso “il fare” (e demotiva anche la maggior parte degli studenti superstiti).

Il secondo paradosso è di carattere organizzativo: alle scuole più difficili non sono assegnati, come sarebbe sensato, gli insegnanti migliori, più preparati, più motivati a lavorare con soggetti a rischio; ma sono assegnati inevitabilmente i docenti appena entrati in servizio e dunque con minore esperienza di insegnamento. Infatti avviene normalmente che, per effetto delle graduatorie, alle scuole  a rischio vengano assegnati i docenti giovani, appena entrati nell’insegnamento, con un punteggio basso; i quali, dopo un anno trascorso con classi molto difficili ed anche in aree periferiche, a meno di essere spinti da un autentico spirito missionario, chiedono quasi tutti il trasferimento ad altre scuole meno difficili o semplicemente più vicine a casa, venendo rimpiazzati da colleghi con punteggio ancora più basso in graduatoria, se non da supplenti; la mancanza di meccanismi incentivanti e la mobilità fanno dunque sì che il turn-over in queste scuole, che invece più necessiterebbero di docenti esperti e di continuità didattica, sia molto più alto che altrove.

Allora la strada per combattere la dispersione deve necessariamente affrontare queste debolezze culturali ed organizzative.

Per quanto riguarda l’aspetto organizzativo va incentivata la presenza degli insegnanti migliori nelle aree/scuole a rischio, differenziando il trattamento economico ed introducendo vincoli pluriennali alla mobilità, così da assicurare la continuità didattica, che rappresenta un elemento importantissimo di qualità dell’offerta formativa che viene invece trascurato nella scuola italiana, come testimoniano le analisi di Tuttoscuola.

Per quanto riguarda la debolezza culturale occorre innanzitutto rinforzare l’attività di orientamento nella scuola media, in modo da favorire scelte più in linea con i propri interessi ed attitudini. Molti abbandoni sono il risultato di un orientamento sbagliato. Vanno anche diffuse e riqualificate proposte formative, come l’Istruzione e Formazione professionale e l’Apprendistato, che offrono percorsi formativi che prevedono una forte interazione con la pratica ed il mondo reale e sono in grado di creare alternative ai percorsi scolastici tradizionali, recuperando molti giovani a forte rischio di abbandono. E’ interessante notare che nei Paesi nei quali vige uno stretto rapporto tra scuola e lavoro, come in Germania, il problema dell’abbandono è fortemente ridotto, perché gli studenti trovano nel percorso formativo quella concretezza che fanno fatica a trovare in un percorso ad orientamento più generalista.

Occorre anche modificare l’approccio didattico della scuola secondaria superiore, specialmente nel primo biennio degli istituti tecnici e professionali e nelle aree/scuole a rischio, rafforzando la qualità della proposta formativa, sviluppando metodologie di tipo induttivo piuttosto che deduttivo, ovvero fortemente basate sull’osservazione della realtà, facendo discendere le formulazioni teoriche dalle esperienze pratiche.

Spesso si osserva che l’offerta di percorsi professionali, anche compiuti in età precoce, rischia di favorire un processo di marginalizzazione dei giovani che intraprendono questi percorsi. Sarebbe facile rispondere che è preferibile concludere il percorso formativo conseguendo una qualifica od un diploma professionale che abbandonando un liceo; la realtà mostra spesso casi di giovani che hanno abbandonato il percorso di scuola secondaria superiore e che sono stati “recuperati” dall’Istruzione e Formazione professionale. Ma questo non basta. La proposta dei percorsi professionalizzanti deve essere qualificata:

  • deve fornire solide conoscenze e competenze metodologiche che non invecchiano; partire dall’esperienza pratica non significa rimanere appiattiti su di essa, ma attivare un processo circolare tra l’esperienza e la riflessione sulla esperienza. Se questo avviene, allora per i giovani sarà possibile trasferire i risultati del proprio apprendimento a nuovi ambiti ed affrontare i processi di innovazione tecnologica;
  • deve offrire la possibilità di proseguire il percorso formativo. Nessun percorso scolastico o formativo deve costituire un vicolo cieco ma deve permettere di proseguire nello studio ed accedere ai percorsi superiori, ovviamente nel rispetto dei logici vincoli di propedeuticità e dei relativi standard formativi”.
Giorgio Allulli