Disoccupazione giovanile: c’è una ‘propensione culturale’ a non lavorare?

Un interessante articolo a cura di Claudio Negro, pubblicato nel numero 140 (12 gennaio 2023) di “Mercato del lavoro news” – la newsletter della Fondazione Kuliscioff di Milano presieduta da Walter Galbusera –, dopo aver esposto una serie di dati che smentiscono la presunta eccezionalità della situazione italiana rispetto al quadro europeo, si conclude con una considerazione che merita attenzione e approfondimento: “Resta da comprendere se, oltre a questi dati oggettivi, vi sia anche una propensione ‘culturale’ dei giovani italiani, che sarebbe interessante indagare”. Una propensione a guardare al lavoro con diffidenza, fino al punto di preferire lo status di inoccupato (NEET: Not in Education, Employment or Training) a quello di disoccupato in cerca di lavoro.

I dati citati da Negro, relativi al 2021, sono oggettivi: la percentuale di giovani italiani disoccupati (cioè che cercano lavoro senza trovarlo) non è molto distante dalla media europea: 9,5% conto il 7,7% dell’area Euro. E per quanto riguarda i giovani occupati con contratti a termine della fascia 15-24 anni il dato italiano (61%) non è lontano da quello francese (56,1%) o svizzero (54%), e inferiore a quello olandese (68%): “segnale di una condizione largamente diffusa, per quella classe di età, in tutta Europa e non peculiarmente italiana” e del fatto che “i giovani italiani non sono sostanzialmente più sottoccupati dei coetanei europei”.

Anche il fatto che ai giovani tra 15 e 24 anni vengano inizialmente offerti posti di lavoro a basso contenuto professionale non è una caratteristica solo italiana: il fenomeno riguarda 148.000 giovani in Italia 149.000 in Germania e 208.000 in Francia, due Paesi paragonabili al nostro per popolazione. Anche nel settore dei sales services i numeri sono simili: 310.000 addetti in Italia, 333.000 in Francia, 375.000 in Germania.  I giovani italiani, dunque, non sono sostanzialmente più sottoccupati dei coetanei europei. Sono però meno qualificati: sempre nella fascia 15-24 anni in Italia hanno concluso la secondaria superiore 1.612.000 lavoratori, contro 2.280.000 della Francia e 4.324.000 della Germania; sono laureati 627.000 italiani, 2.391.000 francesi e 1.696.000 tedeschi.

Se le condizioni di lavoro offerte dal mercato ai giovani italiani sono molto simili a quelle dei giovani europei il dato che differenzia nettamente l’Italia dall’Europa è quello della partecipazione dei giovani tra i 15 e 29 anni al mercato del lavoro: la percentuale dei NEET in Italia è del 29,8% contro il 16,4% della media europea, il 14,6% della Germania, il 17,4% della Francia. 

Come si spiega questo forte scarto? In parte per la maggiore diffusione del lavoro nero e della dispersione scolastica, in parte per la inadeguatezza del sistema scolastico e formativo a orientare gli studenti in modo efficace e a formare le figure che occorrono, come dimostra il fatto che restano scoperte molte offerte di lavoro per programmatori, infermieri, disegnatori industriali, idraulici, elettricisti (figure che il sistema non forma a sufficienza…); in parte ancora per la mancanza di serie ed efficaci politiche attive del lavoro, cui si preferiscono sgravi fiscali e contributivi per le aziende.

Ma tutto questo non basta a spiegare l’entità del fenomeno NEET in Italia. Evidentemente, come si osserva nella newsletter della Fondazione Kuliscioff, andrebbero indagate altre concause. Tra queste, ci sembra, il discredito del lavoro e della dimensione operativa dell’apprendimento che traspare in generale dai curricoli scolastici e dalle reiterate polemiche contro l’alternanza scuola-lavoro (molte delle quali ideologiche; giusto invece pretendere la massima sicurezza, ma – come è stato detto – il problema non è l’alternanza scuola-lavoro, ma che sui luoghi di lavoro non si deve morire).

È singolare che il lavoro sia rappresentato da qualcuno come un disvalore in un Paese la cui Costituzione si apre con l’affermazione che “L’Italia è una Repubblica democratica, fondata sul lavoro.

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