… e del merito. Da MI a MIM

Più ancora del nome del nuovo titolare del Palazzo della Minerva ha sorpreso l’apposizione che è stata riportata al tradizionale nome del ministero dell’istruzione: … e del merito.

La denominazione del dicastero responsabile del settore scuola è cambiata poche volte nel corso della storia d’Italia. Sotto il regime fascista era stato denominato ministero dell’educazione (il termine era rimasto visibile fino a qualche anno fa sul frontone del palazzo, coperto appena dalla nuova denominazione di “istruzione”). Dal 1946 la denominazione era diventata dell’istruzione e tale era rimasta fino a ieri.

Era stato denominato anche “pubblica istruzione” (MPI), ma l’aggettivo “pubblica” era stato tolto per semplificare la successiva denominazione comprensiva di Università e Ricerca (MIUR).

Poco tempo dopo la separazione da queste ultime due ha ridotto la denominazione a MI. Con l’arrivo del Merito, l’acronimo dovrebbe ora diventare MIM.

L’imprevista apposizione ha colto di sorpresa il mondo della scuola e non solo. Ci si interroga sulla portata di quel termine, probabilmente voluto o approvato dalla stessa premier e dal suo entourage, che ha tradotto ad abundantiaml’obiettivo elettorale della coalizione: “Rivedere in senso meritocratico e professionalizzante il percorso scolastico”.

Il merito nella scuola richiama prima di tutto l’art. 34 della Costituzione “I capaci e meritevoli, anche se privi di mezzi, hanno diritto di raggiungere i gradi più alti degli studi”. 

La materia è sufficientemente regolamentata. L’onere di valutare gli studenti e il loro “merito” spetta agli insegnanti. L’intento di questo governo è quello di sollecitare un maggior controllo non solo delle prestazioni ma anche del comportamento degli studenti? Un maggior rigore e una maggiore selettività? Presto si capirà.

Il concetto di merito può essere riferito poi al personale e, in particolare, ai docenti.

Si prospetta qualcosa di più, forse molto di più, di quanto sette anni fa tentò la Buona Scuola di Renzi con la premialità degli insegnanti? Il tentativo fu decisamente contrastato dal sindacato che alla fine è riuscito, di fatto, ad annacquare la premialità e a renderla inefficace. Proprio il rapporto con il sindacato su questa materia diventerà determinante per portare a termine qualsiasi progetto.

La premialità porta con sé il rischio di un effetto divisivo che potrebbe minare l’unità della comunità educante. Insomma è un tema da trattare con la massima sensibilità. Se la scuola ha bisogno di personale motivato e che sia data la giusta considerazione a tutti in rapporto all’apporto che danno (e non in maniera acriticamente egualitaristica), al contempo la scuola non ha bisogno di una competitività fine a se stessa tra i docenti, ma di “gioco di squadra”, “per” e non “contro”.

Se il merito non riguarda la premialità bensì la carriera, l’orizzonte di una possibile riforma potrebbe essere diverso, anche se un cambiamento radicale come quello contenuto anni fa nel progetto Aprea dei profili diversi all’interno dell’unica funzione docente dovrebbe fare i conti con il sindacato e, se assunto come ipotesi progettuale possibile, non potrebbe passare a colpi di maggioranza in Parlamento, pena uno sconquasso tra il personale scolastico. La materia è insomma esplosiva e richiede di essere affrontata con una visione “olistica”.

Il ministro Valditara, prima di tutto dovrebbe porsi in un atteggiamento di dialogo con i sindacati, specie con quelli più aperti a progetti di innovazione e sviluppo. Ma potrebbe contare anche sull’appoggio esterno di Azione che ha incluso tra gli obiettivi elettorali la valorizzazione professionale e la carriera dei docenti e che ha registrato, con Calenda, una dichiarazione di opposizione non pregiudiziale verso il Governo Meloni.

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