L’educativo digitale prima, durante e dopo il Coronavirus

di Roberto Franchini

Nel 2016 ho pubblicato un volumetto, dal titolo L’apprendimento mobile attivo, che costituiva il rapporto finale, in termini di modellizzazione e studio di impatto, di una lunga ricerca condotta nei centri di formazione professionale salesiani, nel confronto con alcune esperienze europee ad alto tasso di innovazione dei processi formativi.

La tesi principale era molto semplice: come dal Seicento in poi, sino alla Rivoluzione Industriale, l’invenzione della stampa provocò il cambiamento di paradigma di scuola, mettendo al centro strumenti didattici come il libro, la lezione e la classe (frutti pedagogici della modernità), così il digitale sta radicalmente trasformando l’educazione, portando al centro strumenti come Internet, le piattaforme di comunicazione/condivisione e i social network. Non perché la tecnologia guidi l’educazione, ma perché l’educazione, immersa nel suo tempo, valorizza la tecnologia, potenziando se stessa. Non tecnologie educative, dunque, ma educativo digitale!

La scuola italiana prima del COVID-19 stava strenuamente resistendo al cambiamento, arroccata sul suo tradizionale compito di alfabetizzazione, e dunque incline a difendersi dai pericoli del digitale, salendo sui bastioni della disciplina e del presunto dovere di trasmissione culturale. Nulla di nuovo, d’altronde; infatti era già successo: il mondo dell’educazione durante il Seicento aveva reagito con vigore contro il demonico strumento del libro stampato. Filippo di Strata, educatore, tutore e religioso domenicano, aveva scritto: “Il mondo è andato avanti benissimo per seimila anni senza la stampa, e non c’è alcun motivo perché le cose debbano cambiare adesso. La stampa corromperà i giovani che avranno facile accesso a testi scandalosi; le traduzioni in volgare delle sacre scritture daranno luogo a errori grossolani; i volumi usciti dalle stamperie sono oggetti sudici, indegni di stare in dimore rispettabili; comprandoli, infine, si finanzierà una razza (quella degli stampatori) che scialacqua i guadagni in vino e prostitute. Est virgo hec penna, meretrix est stampificata”.

Ma egli sbagliava, e infatti nel corso del tempo il mondo dell’educazione ha per così dire “digerito” la novità della stampa, rintracciando le opportune contromisure, e massimizzandone i vantaggi: l’adozione del libro di testo ha infatti coniugato il principio dell’autorità, proprio della tradizione orale, con i vantagg della riproduzione seriale, che ha portato la conoscenza nelle scuole e in ogni casa, sino ai giorni nostri, completando un percorso secolare di alfabetizzazione di massa.

Il nuovo modello di scuola, fatta di cattedre, banchi, libri, penne, registri, valutazioni numeriche, orari dettagliati e compiti a casa fu dapprima immortalato dai gesuiti, nel celebre trattato Ratio Atque Institutio Studiorum Societas Jesu, e poi definitivamente sancito in epoca di Rivoluzione Industriale, in quanto opportunamente individuato come strumento efficace per portare tutti gli studenti ad uno standard minimo di conoscenze, mediante l’introduzione dell’obbligo di istruzione.

Ma cosa succede alla scuola quando il tradizionale compito di trasmettere le conoscenze è messo in discussione dalla vorticosa società dell’informazione? Il modo tradizionale di organizzare l’istruzione è adeguato ai giovani di oggi, i cosiddetti nativi digitali? Che tipo di autorità può avere il docente, quando l’informazione di cui era fonte esclusiva oggi è accessibile in modo straordinariamente rapido e gratuito? Possiamo ancora ragionare sul concetto di standard educativo, quando il processo storico di alfabetizzazione di massa è da intendersi concluso, mentre altre questioni vanno imponendosi, come ad esempio la demotivazione, la dispersione, l’analfabetismo emotivo e critico e la strage del talento? Non sarebbe meglio virare dal concetto di standard a quelli, pedagogicamente più densi, di personalizzazione e di educazione alla cittadinanza?

Come afferma la Raccomandazione Europea sulla modernizzazione dei sistemi di istruzione (2018), “la scuola,  per tradizione luogo di acquisizione del sapere, è oggi affiancata da numerose altre fonti di informazioni accessibili. Le tecnologie moderne hanno liberato l’istruzione, aperto opportunità per attività educative multidimensionali e creato uno spazio educativo. Una sfida importante consiste nel rendere la scuola il luogo più interessante di questo spazio. Il ruolo dei sistemi di istruzione è quello di formare una persona completa, che si realizzi in ambito professionale, sociale, culturale e civico in un ambiente diversificato e globale”.

Queste istanze erano già vive prima del Coronavirus, anche se molto spesso temute e rimosse. Oggi tuttavia c’è un’altra pressante questione: i nostri figli possono tornare nelle aule alveare, stretti gli uni di fianco agli altri in spazi angusti, predisposti per il classico schema della lezione e dell’esercizio individuale controllato?

La risposta è no, almeno nell’immediato. Questo però non vuol dire che la didattica a distanza sia la soluzione: il Tofu non è formaggio, come ha ironicamente commentato Yong Zhao sul suo Blog. E’ ovvio che occorra tornare a scuola, ma nelle stesse modalità precedenti?

In realtà, l’attuale contingenza può rappresentare un’opportunità straordinaria, per ripensare le variabili del cosiddetto curricolo implicito: spazi, tempi, raggruppamenti. Già nella citata pubblicazione si era espressa la speranza che, laddove aveva almeno parzialmente fallito la parenetica pedagogica, avrebbe potuto riuscire il fattore tecnologico: i nuovi media, infatti, richiedono mutamenti radicali nel modo di concepire il rapporto tra insegnamento e apprendimento. Ora, a quattro anni di distanza, l’emergenza pandemica può funzionare da inedito amplificatore (o acceleratore) del cambiamento, certamente partendo da motivazioni igieniche, ma raggiungendo ben presto il piano delle istanze pedagogiche e didattiche.

Proviamo a indicare alcune possibili coordinate trasformative:

  • dall’aula all’articolazione di spazi differenziati per ricercare, collaborare, connettersi, in presenza ma anche in remoto;
  • dall’orario scolastico al tempo di lavoro, non necessariamente confinato in un quadro rigido;
  • dal gruppo classe a piccoli raggruppamenti (team cooperativi), in presenza ma anche a distanza.
  • da risorse didattiche rigide e mnemoniche a una molteplicità di fonti, cartacee e digitali;
  • da insegnanti ex cathedra a insegnanti facilitatori, registi di esperienze di apprendimento.

La dislocazione di spazi fisici e virtuali, la collaborazione in presenza e a distanza, l’utilizzo intelligente di tecnologie dovrebbero consentire di affrontare l’attuale emergenza in un’ottica non difensiva, ma attiva e creativa, non limitando le opportunità educative, ma amplificandole a dismisura. Flessibilità organizzativa e modello blended aiuteranno a non vedere i cambiamenti come una pura risposta al virus, ma come il futuro dell’istituzione educativa, capace di non fermarsi a mere regolamentazioni attuate nel nome della sicurezza, ma di rilanciare e trasformarsi,  immaginando un nuovo modello organizzativo, nel nome dell’educazione e del successo formativo. Insomma, non si tratta semplicemente di amministrare una crisi, ma di trarre da essa quelle indicazioni che ci portano avanti, invece di difendere lo status quo. Come affermava Albert Einstein, la crisi è sempre un’opportunità.

Insomma, se  il COVID-19 ci ammonisce dicendoci che la didattica tradizionale è pericolosa, perché impedisce il distanziamento sociale, il cambiamento di paradigma ci dice qualcosa di più forte e radicale: la scuola tradizionale è moribonda, perché ostacola la creatività, la collaborazione e la personalizzazione. L’educativo digitale ci aiuta ora, nell’emergenza, ma sarà lo scenario da cui ripartire anche quando, speriamo quanto prima, rientreremo non nelle nostre “aule”, ma nello “spazio educativo”.