Gruppo di Firenze e ragazzi di Barbiana: due lettere a confronto

Il ‘Gruppo di Firenze’ scrive ai giornali

Recentemente la stampa nazionale ha dato ampio risalto ad una lettera scritta dal  “Gruppo di Firenze”. La lettera, sottoscritta da un gran numero di intellettuali, opinionisti, professori universitari, contiene una denuncia e un appello. La denuncia riguarda l’allarmante e diffusa incompetenza linguistica degli studenti, al punto che giungono alla scuola secondaria e, peggio ancora, all’università,  alunni che non sono in grado di scrivere correttamente, non conoscono la grammatica, mancano dei più elementari requisiti richiesti ad una persona ‘alfabetizzata’. L’appello, che è stato raccolto da un numero veramente notevole di intellettuali e docenti universitari, mira a sollecitare un pronto e deciso intervento, in grado di porre finalmente rimedio a una situazione divenuta insostenibile.

Quanto denunciato rappresenta certamente un problema molto serio, che, proprio per questo, va affrontato con la dovuta attenzione, e richiede che si sviluppi una analisi approfondita, evitando di intraprendere la strada, oggi così affollata, delle facili semplificazioni. Una strada scivolosa, che purtroppo sembra proprio quella sulla quale con le loro sicurezze si sono avviati i firmatari.

Esaminiamo la diagnosi proposta: gli estensori della lettera, pur riconoscendo l’impegno di tanti meritevoli insegnanti, ritengono che i risultati siano insoddisfacenti perché le Indicazioni nazionali non prestano la giusta attenzione alla buona padronanza della lingua italiana e perché non vengono effettuate verifiche costanti e rigorose.

Individuata la causa di tanto danno, il ‘Gruppo di Firenze’ indica la cura.

Si cambino le Indicazioni nazionali, si mettano nero su bianco i traguardi, anche intermedi, che gli studenti dovranno assolutamente raggiungere, si prevedano puntuali verifiche su: dettato ortografico, riassunto, comprensione del testo, conoscenza del lessico, analisi grammaticale e scrittura corsiva a mano.

Infine un suggerimento pratico: si faccia in modo che  insegnanti di scuola secondaria di primo grado partecipino alle verifiche e alle  prove d’esame della scuola primaria; che insegnanti di scuola secondaria di secondo grado prendano parte agli esami di licenza di fine ciclo.

Siamo di fronte ad una buona analisi? I suggerimenti forniti porteranno ai risultati desiderati?

Colpa delle Indicazioni nazionali?

Quanta colpa possono avere le Indicazioni nazionali se molti studenti giungono all’università con così scarse competenze linguistiche?

Come è noto, le Indicazioni vigenti sono state varate nel 2012. Per la maggior parte, gli studenti che frequentano il primo anno di università sono nati nel 1997. Per non dire degli studenti iscritti agli anni precedenti. È evidente che tutti gli universitari italiani, per lo meno quelli non irrimediabilmente fuori corso, hanno frequentato una scuola (allora chiamata  elementare) che era all’insegna di programmi emanati negli anni ottanta, e una scuola ( che allora si chiamava media) che era governata da programmi emanati negli anni settanta.  Credo che nemmeno i più accaniti detrattori delle Indicazioni possano ritenere tale testo capace di un così forte potere retroattivo.

Perché dunque prendersela con le  Indicazioni?

Azzardiamo un’ipotesi. Forse perché il vero bersaglio non è tanto il  testo ministeriale, quanto la cultura pedagogica che lo avrebbe prodotto, ritenuta poco sensibile al merito, allergica alle verifiche, incline al buonismo e quindi non selettiva, una cultura evidentemente non intaccata dai numerosi cambi di maggioranze, di governo, di ministri (dal 1997 ad oggi si sono succeduti a Trastevere  nove ministri).

Gli scriventi, insieme agli illustri firmatari,  sembrano nostalgici di una età dell’oro, che, se mai c’è stata, oggi non luccica più. Un’età nella quale la famiglia normativa insegnava ai bambini le regole che oggi la famiglia affettiva non insegna più; un’ età nella quale era considerato normale che ci fosse una selezione precoce, e che questa avvenisse, auspicabilmente, fin dai primi anni di scolarizzazione. Un’età nella quale alla scuola media arrivavano alunni già selezionati, per non parlare dei licei o dell’università. Classi senza alunni con i rilevanti svantaggi sociali o culturali, senza alunni stranieri, senza alunni con  disabilità.

Le Indicazioni nazionali non sono un testo sacro, intoccabile. Anzi, a differenza dei programmi di un tempo, è nella loro natura il fatto di essere sottoposte a continue revisioni, anche perché parlano ad una scuola che è chiamata a elaborare la propria offerta formativa in un contesto di grande cambiamento ed è nella necessità di ridefinire continuamente il proprio progetto.

Personalmente ritengo che l’attuale testo non trascuri affatto l’importanza della padronanza della lingua italiana e so che, nelle varie versioni delle Indicazioni, ma particolarmente in quella attuale, vi è stata grande attenzione e supporto da parte di linguisti non meno competenti dei firmatari e di accreditate associazioni. Ma tutto può e deve essere migliorato.

Tuttavia si può veramente pensare che un testo, anche il più autorevole, abbia il potere di modificare le pratiche didattiche?

Quanto alle verifiche, non vengono certo scoraggiate dalle Indicazioni, che anzi dedicano notevole attenzione alla valutazione e, nella più recente versione del 2012, introducono anche la certificazione delle competenze.

Spetta agli insegnanti, che gli stessi firmatari riconoscono in larga parte capaci, decidere come, quando, con quali strumenti, con quale frequenza effettuare le loro verifiche, sempre all’interno di una concezione formativa della valutazione, che è anche l’unico modo per renderla efficace in relazione a quel miglioramento che tutti desideriamo ottenere. E non dimentichiamo che da tempo interviene anche l’INVALSI, con quella sistematicità che gli estensori dell’appello sembrano auspicare.

I ragazzi di Barbiana scrivono ad una professoressa

Ma, nel sottolineare l’importanza di una rigorosa valutazione, a me sembra che l’appello suggerisca l’idea che il controllo rigoroso funzioni anche da molla motivazionale.

Non sono i soli a ritenere che premi e punizioni (il rigore del bastone, il sapore della carota) siano la ragione per la quale gli studenti decidono di impegnarsi. Un simile meccanismo di condizionamento operante (come direbbero i comportamentisti) può risultare efficace per alcuni alunni ed è perfino desiderato da quanti aspirano a vedersi ai primi posti della classifica; credo, però, che rappresenti una cattiva moneta per i nostri studenti e un cattivo investimento per il futuro.

Dovrebbe far riflettere quanto scrive J. Mahoney, capo d’istituto di una scuola superiore americana:

“Il paradigma prevalente nelle scuole, almeno ufficialmente, promuove la competizione e l’eccellenza. Ma se uno deve ‘competere’ ed ‘eccellere’, l’implicazione è che gli altri devono perdere, fallire. Questo giugno in una classe di 100 diplomandi di una scuola superiore americana, quanti si considereranno vincitori? Dal momento che tutti conoscono la loro posizione nella gerarchia della classe (suddivisione per abilità), resta poco spazio per l’immaginazione. La numero 35 si considera una vincitrice? E il numero 65? Il numero 75 certamente si vede perdente nella partita della scuola, e porterà questo suo atteggiamento nel mondo del lavoro. [1]

Nei miei anni di insegnamento ho imparato che agli studenti bisogna chiedere molto, essere, come scrivono nel loro appello i firmatari, esigenti. Ma la molla motivazionale non sta nella rigorosa applicazione di una docimologia meritocratica, nella promozione dell’ individualismo competitivo, nel ricorso al voto come premio o come castigo, ma risiede nel cuore degli stessi alunni, capaci di appassionarsi quando le proposte che facciamo sono dotate di senso per la loro vita, quando sono riconosciuti per la loro originalità di persone umane e non, riduttivamente, per il loro ruolo sociale di studenti, quando -come scriveva il Priore di Barbiana- sappiamo indicare loro uno scopo,  “ma che sia grande”.

Ed è bella l’idea che insegnanti di diversi ordini di scuola lavorino insieme, ma non come controllati e controllori, non come controparti sul fronte di una guerra infinita nella quale ci si rinfaccia gli errori, ma come adulti competenti e accoglienti, la cui preoccupazione siano i ragazzi, non le classifiche. E questa collaborazione può avere un grande valore se non è relegata a momenti particolari, e anche molto delicati, come quelli degli esami finali, e se si estende anche al dialogo sui valori che ispirano l’azione professionale e al confronto sui metodi, sulle tecniche didattiche, sui criteri di valutazione.

Io, che ho frequentato la scuola elementare quando vigevano i programmi del 1955, ricordo la mia classe prima. Eravamo 35, compresi i tre ‘ripetenti’. Poi, progressivamente, la classe si è rimpicciolita, e anche le aule via via che si scalavano gli anni erano più piccole, perché si lasciava per strada ‘la zavorra ‘ ( così i nostri maestri chiamavano le bambine e i bambini bocciati).

In quinta eravamo 24 ( compresi 4 ripetenti). Si avvicinava la fine dell’anno scolastico. Il maestro ci chiamò ad uno ad uno, disponendo un piccolo gruppo alla sua destra, i più alla sua sinistra. I bambini posti  alla destra del maestro era quelli da lui ritenuti adatti alla scuola media, che allora non era obbligatoria e che, per esservi ammessi, richiedeva il superamento un ulteriore esame, oltre a quello previsto per il diploma di quinta. Gli altri, quelli alla sinistra,  che erano i più, venivano indirizzati alla scuola di avviamento professionale.

Si trattava certamente di una scuola seria, selettiva. Una scuola che, a suo modo, pensava di essere equa, e di premiare il merito.

Via via, un imbuto didattico di questo tipo avrebbe sfornato liceali bravissimi, studenti universitari provetti, la gioia dei loro esigenti professori di allora.

E tutti gli altri? Erano un problema che non riguardava la scuola.

Di questo abbiamo nostalgia?

Una scuola così quanti lettori ha prodotto, quante persone veramente alfabetizzate, disinvolte nell’uso del congiuntivo e ferrate sintatticamente?

Quali evidenze abbiamo circa l’efficacia didattica di quei metodi (dettati, corsivi, esercitazioni, premi e castighi) per quelli, i più, alla sinistra del maestro?

“Cara professoressa, lei non si ricorderà certo di me. Ne ha bocciati tanti.” Così inizia un’altra ‘lettera’, scritta cinquanta anni fa non dal ‘Gruppo di Firenze’, ma dai ragazzi che quella scuola meritocratica, esigente, seria aveva scartato. Il loro (cattivo?) maestro era don Lorenzo Milani.

In quella scuola l’attenzione alla lingua era molto forte. Si trattava di aiutare quei ragazzi scartati a recuperare le 700 parole che li dividevano dai loro compagni più fortunati, quelli che la scuola ce l’avevano a casa. E questo avveniva attraverso un rigoroso lavoro sulla lingua, un lavoro collaborativo, non incentivato da voti o classifiche, ma da quella forte motivazione che li portava a competere per riuscire vincitori non dei loro compagni, ma della povertà, dell’esclusione, dell’ingiustizia di cui erano vittime. E questo non gli uni contro gli altri, ma insieme.

Perché non rileggere ‘Diario di scuola’, testimonianza dolorosa di un ragazzo dislessico, che la scuola equa, rigorosa, esigente aveva convinto di essere affetto da somaraggine acuta, un ragazzo la cui vita è stata -letteralmente- salvata, da quei due o tre professori che hanno saputo vedere il talento nascosto dietro i suoi ‘orrori’ ortografici? 

Pennac, divenuto professore di lingua e letteratura, non si dimenticherà, una volta in cattedra, della ingiusta  sofferenza di cui era stato vittima. Il suo sguardo di professore sarà attento a intercettare dietro l’apparenza, il dolore, ma anche le potenzialità dei suoi alunni ( “I nostri studenti che vanno male (studenti ritenuti senza avvenire) non vengono mai soli a scuola. In classe entra una cipolla: svariati strati di magone, paura, preoccupazione, rancore, rabbia, desideri insoddisfatti, rinunce furibonde accumulate su un substrato di passato disonorevole, di presente minaccioso, di futuro precluso. la lezione può cominciare solo dopo che hanno posato il fardello e pelato la cipolla… spesso basta solo uno sguardo, una frase benevola...[2]“)

Lo stesso D. Pennac che, che sapendo bene di che cosa parlava, inizia così il suo un libro Come un romanzo, dedicato al piacere di leggere:

Il verbo leggere non sopporta l’imperativo, avversione che condivide con alcuni altri verbi: il verbo “amare”, il verbo “sognare”. Naturalmente si può sempre provare. Dai, forza: “amami!” “Sogna!” “Leggi!” “Leggi! Ma insomma, leggi, diamine, ti ordino di leggere!” “Sali in camera tua e leggi!” Risultato? Niente. Si è addormentato sul libro. [3]

[1] Riportato in: T. Sergiovanni, Costruire comunità nelle scuole, LAS, Roma, 2000, p. 109.
[2] D. Pennac, Diario di scuola, Feltrinelli, Milano, 2008.
[3] D. Pennac, Come un romanzo, Feltrinelli, Milano, 2000.