Dispersione scolastica e bullismo: due facce di una stessa medaglia 

L’emergenza educativa di cui da tanto tempo ragioniamo tocca i suoi vertici in due manifestazioni che sono il bullismo, in questi giorni alla ribalta delle cronache, e l’abbandono scolastico i cui dati si rincorrono negli anni senza che si riesca a poterne avere una ragionevole certezza. Il bullismo rappresenta un fallimento sul piano educativo quanto e come l’abbandono scolastico. Che a scuola sia possibile infrangere le regole del rispetto umano e della convivenza civile, fino al palese compimento di reati civili e penali, suscita grande impressione e costringe a riflettere. Non vale il rimpallo delle responsabilità tra scuola e famiglia perché entrambi hanno le proprie responsabilità e di quelle dovranno rispondere, nel caso di reati, davanti alla legge.

Ne abbiamo parlato nel numero di giugno di Tuttoscuola, in un articolo a firma di Nicoletta Ferroni, Docente istruzione secondaria superiore

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La questione che si ripropone è sempre quella sociale che investe tutta la comunità adulta, la sua incapacità di dare l’esempio, di trasmettere valori e principi, di dialogare in modo empatico e costruttivo ma senza derogare al proprio ruolo e alla funzione educativa verso le nuove generazioni. Forse abbiamo perso una certa, necessaria, convinzione interiore ed è proprio a noi che mancano i punti di riferimento. Siamo noi che stentiamo a riconoscerci nelle istituzioni dello Stato, che non crediamo più, o abbastanza, in ruoli e funzioni, che pensiamo di non avere dei modelli validi da proporre né di poter essere, noi, modelli per loro, per i nostri figli, per i nostri studenti. Ma questo non potrebbe significare, forse, che non siamo soddisfatti di noi stessi? Che abbiamo, evidentemente, smesso di farci domande e di cercare risposte?                                                                                                                                                            

Trovo sbagliato il dare per scontata quell’abissale distanza contenuta nell’affermazione ‘loro, i nativi digitali’, come si trattasse di esseri generati su un altro pianeta, in un luogo lontanissimo, remoto e sconosciuto. Possiamo davvero pensare che loro siano così diversi da noi? Che non abbiano voglia di ascoltarci? Che, ai loro occhi, sembriamo così lontani e incomprensibili? Che non si aspettino niente da noi e che si possano rivolgere a noi, al massimo, come a dei ‘dispenser’ di beni materiali o istruzioni meramente pratiche o tecniche? O non saremo forse noi a non avere più alcuna voglia di confrontarci, che non abbiamo la forza di difendere le nostre idee e posizioni, che non abbiamo idee? Non avremo forse dimenticato cosa sia la coerenza tra idee e comportamenti? Guarda caso proprio nell’età dell’adolescenza, quando l’osservazione si fa più critica, la discussione e il confronto sulle profondità esistenziali si impone come esigenza necessaria, lì cominciano ad approfondirsi le fratture, a formarsi gli abissi: preferiamo sfuggire e assentarci a noi e a loro.

Anche nella scuola le tante belle parole, i progetti, le iniziative educative, le esortazioni e le circolari restano vane e fine a sé stesse se non sono vissute, sentite, condivise prima di tutto dalla società adulta. Per i giovani le contraddizioni non possono essere accettate e messe da parte. I giovani vogliono sapere che il mondo si può cambiare, che gli errori si devono correggere e che noi ne siamo convinti prima e più di loro. E se il mondo non si può cambiare, se le ingiustizie ci sono e si debbono accettare senza rimedio, i valori e i principi appariranno loro quale pura retorica, falsità insoddisfacenti. Se ciò che è sbagliato, negativo, dannoso non può essere corretto che ragione ci sarebbe per impegnarsi faticosamente a migliorare se stessi?

Rifuggire il sacrificio, ogni fatica, non diviene, dunque, evitare la sofferenza sensato, legittimo? Contrabbandare per valida l’idea di una vita tipo ‘visita al luna park con le tasche piene di gettoni‘ può essere la risposta più appropriata? Quale idea di progresso e di crescita interiore, personale, abbiamo da difendere noi e da proporre a loro? Quali messaggi accogliamo e permettiamo siano propagandati più diffusamente attraverso i media, la pubblicità? Quali gli esempi di successo si affermano nel nostro tempo, in questa nostra società? Come potranno reagire, i giovani che stiamo formando, alle difficoltà della vita di cui, per molti aspetti, siamo direttamente i responsabili?

Credo, sinceramente, che se non veniamo a capo di questi interrogativi, se rinunciamo a metterci in gioco, in modo veritiero, non potremo essere d’aiuto a questi ragazzi e la nostra società ne sarà danneggiata.

Noi siamo loro molto più vicini di quello che vogliamo ammettere, non solo, ma condividiamo gli stessi disagi esistenziali e sociali, con la differenza che noi avremmo il dovere di riconoscere come questi siano dovuti a mancanze più nostre che loro. La crudeltà del bullo verso il ‘debole’ è la riproposizione di ciò che probabilmente ha, egli stesso, subito; una violenza subita o conosciuta e di cui ha paura, tanto dal trovare la soluzione nel rifugio del branco, facendo lo sbruffone, dimostrando di essere capace di sopraffare, di imporsi con la forza, di usare egli stesso quella violenza temuta e che crede, così, di esorcizzare. Manca al ‘bullo’ la conoscenza di qualsiasi altro strumento di confronto, la possibilità di altre modalità di affermazione, non conosce altre vie di accesso ad un qualche riconoscimento.  Mancano al bullo strumenti che solo cultura, educazione e buon esempio possono dare. Abbiamo approfondito questa tematica nel numero di giugno di Tuttoscuola.

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