USA: la ricerca dell’equità richiede il ripensamento delle politiche compensative

I giornali hanno parlato nei giorni scorsi del dibattito in corso negli USA sul destino delle affermative actions, quelle politiche di compensazione dei divari legati alla condizione sociale, intrecciata quasi sempre con l’origine etnica, che a partire dagli anni sessanta dello scorso secolo avevano consentito alle minoranze nere e ispaniche di accedere ai gradi superiori dell’istruzione e alle università più prestigiose grazie a quote di posti loro riservate.

Queste politiche sono state contestate in vari Stati (a volte, ma non sempre, da bianchi appartenenti alle classi agiate esclusi dalle sedi più ambite), con argomenti che andavano dalla difesa del principio di uguaglianza delle opportunità a quella della meritocrazia, tanto che in sette di essi (Arizona, California, Florida, Michigan, Nebraska, New Hampshire e Washington) le norme sulle quote riservate in sede di ammissione ai college e alle università sono state abrogate o sostanzialmente modificate.

Si va affermando l’idea che gli interventi per il riequilibrio delle opportunità dovrebbero essere realizzati non al livello dell’accesso agli studi superiori ma assai prima, nelle fasi iniziali del processo educativo, sulle quali si dovrebbero prioritariamente concentrare gli sforzi finanziari e la stessa ricerca educativa. Ma qualcuno giunge a dire che caso mai le affermative actions dovrebbero essere applicate, oggi, in favore dei bianchi WASP (White Anglo-Saxon Protestant), sempre più spesso superati nei test da studenti di origine indiana, sudcoreana, cinese. E in qualche modo questo già accade, come riconosce lo stesso presidente dell’università di Harvard, una delle più ambite e selettive, a cui giudizio senza interventi di riequilibrio pro bianchi (per i quali, a quanto pare, ci si accontenta di prestazioni meno brillanti nei test) la presenza di questi ultimi sarebbe minoritaria, se non addirittura a rischio di sopravvivenza.