Con cinque voti contro quattro la Corte suprema degli Stati Uniti d’America sembra aver posto termine, la scorsa settimana, alla pluridecennale stagione delle politiche compensative in educazione, avviata da un’altra celebre sentenza del 1954 e rafforzata negli anni sessanta dalle misure assunte sotto le presidenze Kennedy e Johnson.
Niente più quote riservate alle minoranze nelle scuole e nelle università, niente più “busing” per favorire la formazione di classi multietniche, e ritorno invece alla separazione e alla segregazione? E’ forse troppo presto per giungere a conclusioni così drastiche. Occorrerà attendere un’informazione più completa sulle motivazioni addotte dai giudici, e tener conto del fatto, notato anche da Barak Obama, candidato afroamericano alla Casa Bianca, che in molti casi le minoranze interessate non si sono avvalse di tutte le opportunità loro offerte.
E’ un fatto, comunque, che le politiche di integrazione forzata (“affirmative actions“) avevano perso già da tempo il loro originario valore di rottura delle stratificazioni socio-culturali e di riequilibrio delle opportunità, per divenire una consuetudine, una routine burocratica dietro la quale si nascondevano anche forme di assistenzialismo e di disimpegno: che senso ha impegnarsi e competere con tutte le proprie forze se il “posto” è assicurato dalle quote riservate?
In attesa di saperne di più, va notato che la principale motivazione alla base della decisione della Corte suprema USA va ricondotta alla protesta di alcuni studenti bianchi che pur avendo ottenuto buoni, a volte ottimi risultati nelle prove d’accesso alle più prestigiose università e college, ne sono stati esclusi in favore di studenti appartenenti alle minoranze etniche assai meno preparati. Una motivazione, dunque, di tipo essenzialmente meritocratico.
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