Un nuovo contratto per la scuola

La firma del contratto per il personale della scuola, università ed alta formazione artistica e musicale è senza dubbio un evento che inverte una tendenza durata circa un decennio durante il quale sono state sottratte risorse pubbliche a tutto il comparto, mortificando in primis i lavoratori. Recenti nuovi investimenti hanno però coinciso con una serie di modifiche al rapporto di lavoro introdotte con la legge sulla buona scuola, sottraendole alla contrattazione, mortificando così i sindacati. L’ultimo governo della passata legislatura, che ha dato il via ai rinnovi contrattuali nella pubblica amministrazione, ha cercato di porre maggiore equilibrio tra tradizione e innovazione. Ne abbiamo parlato in un articolo presente nel numero di aprile di Tuttoscuola e a firma di Gian Carlo Sacchi, esperto di sistemi formativi.

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I politici sbandierano il risultato ottenuto dopo anni di attesa, alcuni sindacati considerano la leva contrattuale l’unico strumento per gestire le problematiche del rapporto di lavoro, mentre altri esprimono un giudizio critico soprattutto per quanto riguarda un insoddisfacente risultato economico. Si può aggiungere la delusione di chi si aspettava un maggiore avvicinamento alle retribuzioni del personale scolastico europeo, ed anche di chi avrebbe voluto un riconoscimento allo specifico ruolo della scuola nella società ed invece si è trovato immerso nelle logiche della pubblica amministrazione, mentre si nota nel complesso un alleggerimento della parte normativa ed un’apertura verso l’autonomia dei ruoli professionali e degli istituti.

L’atto di indirizzo dell’ARAN considerava nel “profilo dei docenti ogni attività da assolvere, assicurando la dovuta attenzione al potenziamento dell’offerta formativa (…), nella definizione della attività funzionali all’insegnamento l’impegno nella progettazione individuale e collegiale (…), nella valutazione degli alunni, nelle attività di ricerca, nei rapporti con le famiglie e con le comunità scolastiche ed educative, in relazione con le istituzioni del territorio, ai fini del miglioramento della qualità dei percorsi formativi”. Il documento ribadiva la necessità di “valorizzare la contrattazione di istituto nella definizione dei criteri per l’impiego delle risorse del fondo per il miglioramento dell’offerta formativa, fermo restando l’adeguato finanziamento nel recupero degli studenti”.

Dal canto loro i sindacati puntavano a riequilibrare i rapporti decisionali tra i diversi organi di autogoverno della scuola, garantendo la possibilità di scelte democratiche e partecipate e fugando un’impostazione dirigistica sia sul piano della mobilità che dell’incentivazione economica. Si deve rendere chiaro il quadro delle materie e delle attribuzioni afferenti ai diversi livelli di contrattazione, dando valore alle RSU il cui carattere elettivo rafforza la dimensione di autogestione e di coinvolgimento dei vari soggetti della comunità professionale. È dal rapporto tra le parti infatti che devono scaturire i criteri per l’utilizzo del personale, come già avviato con l’accordo sulla mobilità, e l’organizzazione del lavoro: l’articolazione dell’orario, la composizione dell’organico di potenziamento, nonché la retribuzione accessoria, con particolare riferimento alle risorse destinate alla valorizzazione del merito.

In questi anni di vacanza contrattuale il dibattito si era concentrato su uno stato giuridico ed una carriera definiti per legge o addirittura prevedendo per il personale direttivo e docente un ordine professionale ed un codice deontologico, lasciando ai sindacati solo la parte economica. Tanto si è discusso anche sull’orario di lavoro per i docenti per arrivare alle 36 ore settimanali, il che avrebbe dovuto cambiare la logistica ed ovviamente la retribuzione. La buona scuola avrebbe potuto occuparsi delle questioni del personale a tutto campo, mantenendo però quell’impostazione collegiale in linea con la nostra tradizione; l’aver introdotto dispositivi dirigistici legati alle performance individuali ha acceso un conflitto politico-sindacale che nel contratto si sono stemperati facendolo tornare all’antico.

La prospettiva dell’autonomia delle istituzioni scolastiche dà molto più risalto ad un negoziato locale, che rilancia il significato delle RSU; la stagione dell’autogoverno porta molti elementi di libertà nel rapporto di lavoro, in quanto le scuole da terminali territoriali dello stato dovrebbero assumere la fisionomia di strutture per lo sviluppo formativo del territorio. Il primato della contrattazione ci riporta anche al tempo della delegificazione di tutte le norme nel frattempo emanate sul rapporto di lavoro, che quindi potrebbe riversarsi su quanto previsto dalla stessa buona scuola. Quanto poi al potere dei dirigenti scolastici si tratta di un altro fuoco di paglia, in quanto la possibilità di scegliere e di premiare i docenti è stata notevolmente ridimensionata e la loro autonomia d’azione è tuttora scarsa e sono poco considerati nel loro status economico rispetto agli altri livelli dirigenziali, anche se un contentino è arrivato, extracontrattuale, dalla legge di stabilità. 

Dai sindacati la Legge 107 viene accusata di voler introdurre un “quasi mercato”, mettendo le istituzioni scolastiche in competizione per accaparrarsi risorse economiche e clienti; sul piano degli stipendi si chiedono aumenti uguali per tutti, mentre dall’altra parte si insiste per diversificare parte del salario per la valutazione del merito. Il mantenimento degli scatti di anzianità poi serve a compensare il precariato che nonostante le pur numerose assunzioni rimane ancora alto, oltre a far pensare ad una carriera che ancora non sembra volersi costruire. Anche eventuali risorse esterne devono afferire alla contrattazione, comprese le card per l’autoaggiornamento, ed in quest’ottica devono essere definiti i criteri per l’attribuzione di compensi che i sindacati definiscono legati “all’esperienza” o alla “valorizzazione professionale”, ma non alla valutazione. Abbiamo approfondito l’argomento nel numero di aprile di Tuttoscuola.

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