Scuola in presenza o a distanza: un falso dilemma

Man mano che la prospettiva del ritorno alla scuola in presenza, intesa come ritorno alla “normalità”, si affievolisce, rendendo inevitabile il ricorso alla DaD, sia pure con la diplomatica etichetta di DDI (Didattica Digitale Integrata), prende consistenza uno dei tre scenari disegnati da Tuttoscuola già nello scorso mese di aprile, quello di una prolungata sospensione delle attività didattiche in presenza nell’anno scolastico 2020-2021. 

Nessuno, neanche i più avveduti virologi, possiede la sfera di cristallo, e nessuno poteva fare già da allora previsioni sicure sull’andamento della pandemia. Però ci si è comportati (non solo in Italia) come se il virus fosse destinato a esaurirsi entro l’estate, consentendo una regolare ripresa della scuola in presenza. Così non è stato predisposto, come è stato detto con riferimento all’economia, un “piano B” per la scuola, e ci si è attardati in una logomachia sulla insostituibilità della didattica in presenza (Asor Rosa docet), rinunciando a preparare per tempo la scuola e gli insegnanti a una didattica diversa, più in linea con i processi di digitalizzazione di una società destinata comunque a vivere sempre più onlife, per usare la fortunata espressione di Luciano Floridi.

Per fortuna, o meglio per necessità, il dibattito sul destino della scuola tradizionale, quella monomediale che abbiamo conosciuto negli ultimi due secoli, fatta di mura, classi e libri, è ripreso con forza in tutto il mondo, e anche in Italia si registrano contributi importanti come quelli ospitati nella edizione ‘scuola’ di agendadigitale.it, spesso citati da Tuttoscuola, e alcune recenti prese di posizione come quella di Gino Roncaglia, professore di Digital humanities presso l’Università Roma Tre, che in un articolo apparso su Corriere.it (27 ottobre) ha affermato che “la presenza della scuola del distanziamento, gli studenti fermi dietro i banchi, il docente fermo dietro la cattedra, niente movimento, niente attività di gruppo, ricreazione al banco, tutti con la mascherina, non è interazione e socialità ma una situazione (‘setting didattico’) da incubo, che porta spesso a una didattica sbagliata, solo frontale e trasmissiva”. 

Condividiamo il suo suggerimento di puntare invece sulla “capacità di modulare presenza e distanza analizzando razionalmente la situazione, con soluzioni che possono benissimo essere diverse per gradi scolastici o situazioni epidemiologiche diverse”. 

Quanto a una delle principali obiezioni mosse alla DaD/DDI, che accrescerebbe la disuguaglianza delle opportunità, ci limitiamo ad osservare, con le parole di Roberto Contessi, docente liceale e scrittore, intervenuto a sua volta nel dibattito in corso su Corriere.it, che “il sistema di istruzione in presenza, lui stesso, mantiene e garantisce le disuguaglianze culturali di partenza tra gli studenti italiani” e discrimina i più deboli. È proprio ciò che è avvenuto finora in Italia, come Tuttoscuola ha dimostrato nel dossier La scuola colabrodo (2018). La scuola digitale, a certe condizioni già più volte individuate dalla nostra testata (rete e dotazioni tecnologiche per i non abbienti, personalizzazione di percorsi formativi, massima riduzione delle ripetenze, certificazione delle competenze anziché diplomi, per ricordarne alcune), potrebbe affrontare il problema della disuguaglianza in educazione assai meglio di quanto abbia saputo fare la scuola che abbiamo conosciuto.