Le risorse per la scuola ci sono, ma vengono usate male. E gli stipendi degli insegnanti sono più bassi della media europea

Le risorse per la scuola ci sono e sono in linea con l’Ue. Eppure sembrerebbe che non siano utilizzate come dovrebbero. E’ quanto emerge dal dossier della Fondazione Agnelli “Le risorse per l’istruzione: luoghi comuni e dati reali“, presentato lo scorso 21 settembre ai media con l’obiettivo di ricordare alle forze politiche e all’opinione pubblica, prima delle elezioni, i dati di realtà della scuola italiana oggi, che spesso è invece letta a partire da luoghi comuni. “Investire sull’istruzione in Italia è decisivo per il nostro futuro e la scuola dovrà essere al centro dell’attenzione del nuovo governo. Tuttavia, la percezione diffusa che l’Italia per la scuola spenda meno degli altri paesi europei non è corretta. La nostra percentuale di spesa pubblica sul PIL è, infatti, allineata alla media europea, per quanto riguarda scuola dell’infanzia, primaria e secondarie. Anzi, se guardiamo alla spesa per ogni singolo studente dai 6 ai 15 anni, si scopre che l’Italia supera la media europea e paesi come Francia e Spagna. È piuttosto sull’università che spendiamo meno”, spiega Andrea Gavosto, direttore della Fondazione Agnelli.

Il dossier – curato dalla ricercatrice Barbara Romano, con elaborazioni su dati della Ragioneria dello Stato, del Ministero dell’Istruzione, di Eurostat e di Ocse – cerca di dare risposta a quattro domande.

Risorse per la scuola: è vero che la spesa pubblica per la scuola è diminuita negli ultimi anni?

No, per quanto riguarda la scuola dell’infanzia, primaria e secondaria di I e II grado la spesa pubblica italiana – come percentuale del PIL – è rimasta stabile per parecchi anni e nel 2020 ha ripreso a salire. Inoltre, la scuola è l’unico comparto della Pubblica Amministrazione che ha visto crescere in modo significativo il personale (poco più del 20% nell’ultimo decennio).

È vero che per la scuola l’Italia spende meno degli altri paesi europei?

No, per quanto riguarda la scuola dell’infanzia, primaria e secondaria di I e II grado la spesa pubblica italiana – come percentuale del PIL – è allineata alla media europea e molto simile a quella di paesi come Germania e Spagna. La nostra quota di spesa pubblica sul PIL è, invece, davvero bassa per l’università (poco più dello 0,3%). La differenza fra l’Italia – che nel 2020 in aggregato ha speso il 4,3% del suo PIL in istruzione – e la media europea del 4,9% è data perciò quasi interamente dalla minore spesa per l’università.

Inoltre, “poiché l’Italia – come ha spiegato Barbara Romano – non ha modificato la propria quota di spesa pubblica per la scuola anche in presenza del forte declino della popolazione studentesca”, per istruire ogni singolo studente fra i 6 e i 15 anni – corrispondenti grosso modo alla fascia dell’obbligo – il nostro Paese spende circa 75.000 euro PPP (Parità di poter d’acquisto, cioè, corretti per le differenze del costo
della vita fra paesi): sopra la media europea e quella dei paesi OCSE.

Questi sono dati – commenta Andrea Gavosto – che fanno riflettere. Forse in Italia per la scuola più che spendere poco semmai si è speso male, alla luce dei risultati di apprendimento insoddisfacenti, nelle scuole secondarie nettamente inferiori della media europea, e con enormi divari territoriali e sociali. È un campanello d’allarme per chi governerà. A partire dall’efficacia e dall’efficienza con le quali si sapranno gestire le risorse del PNRR per gli investimenti sulla scuola”.

È vero che gli insegnanti in questi anni sono diminuiti?

No, negli ultimi dieci anni il numero degli insegnanti italiani della scuola statale (dall’infanzia alla secondaria di II grado, di ruolo e a tempo determinato, incluso i docenti di sostegno) è nell’insieme costantemente aumentato. Il corpo insegnante è, però, sensibilmente cambiato nella sua composizione interna. Nonostante le grandi immissioni in ruolo della Buona Scuola che li aveva portati a 730mila, sono oggi leggermente diminuiti gli insegnanti di ruolo (poco meno di 700mila), principalmente per via dei pensionamenti; sono invece più che raddoppiati i docenti a tempo determinato: l’anno scorso 225mila, incluso il sostegno, rispetto ai 100mila subito dopo la Buona Scuola. E soprattutto, per rispondere alla forte domanda di inclusione scolastica, sono aumentati gli insegnanti di sostegno. In dieci anni il loro peso sul totale del corpo insegnante è passato dal 13% al 21,5%: oggi sono dunque più di un quinto del totale. Va, però, sottolineato come l’aumento del personale di sostegno sia avvenuto grazie al crescente impiego di docenti a tempo determinato (in dieci anni passati dal 39 al 61% del totale del sostegno), la stragrande maggioranza dei quali, però, non sono in possesso di una specifica preparazione, con rischi
gravi non solo per la continuità didattica, ma per la qualità del processo di inclusione degli allievi con disabilità.

Risorse per la scuola: è vero che le retribuzioni degli insegnanti italiani sono più basse degli altri paesi europei?

Sì, le retribuzioni dei docenti italiani sono inferiori a quelle della maggioranza degli altri paesi europei. Va notato, in particolare, che mentre nei primi anni di professione la forbice retributiva a sfavore dei nostri docenti non è enorme (25mila euro circa in Italia, con Francia, Portogallo e Finlandia comunque sotto i 30mila euro, con la Germania, però, nettamente sopra i 50mila euro), la differenza nel corso degli anni di lavoro si accentua sensibilmente. Le retribuzioni dei docenti italiani sono infatti poco dinamiche, in quanto legate completamente al meccanismo di anzianità, senza alcuna progressione di carriera, che in altri paesi porta chi sale di responsabilità a massimi retributivi talvolta molto elevati. Va, però, anche ricordato che – caso praticamente unico in Europa – il contratto di lavoro dei docenti italiani quantifica in pratica solo le ore di lezione. Che, ad esempio, per un professore delle superiori sono 18 alla settimana: a queste si aggiunge un forfait di altre 80 ore nel corso dell’anno lavorativo (quindi circa altre 2 alla settimana) per attività di programmazione, aggiornamento, ricevimento dei genitori. La preparazione delle lezioni e tante altre attività non strettamente di lezione, ma decisive per l’efficacia dell’insegnamento, non sono invece incluse nel contratto, al contrario di quasi tutti gli altri paesi. Tra scuola e casa, gli insegnanti italiani dichiarano di lavorare (dati Ocse Talis 2018, relativi alla secondaria di I grado) 26 ore alla settimana, contro una media europea di 33 ore.

“Gli insegnanti italiani – conclude Gavosto – vanno sicuramente incentivati con retribuzioni superiori e più dinamiche, che li avvicinino ai loro colleghi europei, introducendo anche progressioni di carriera e responsabilità. Anche i loro orari contrattuali, tuttavia, dovrebbero andare verso medie europee, per garantire un tempo scuola più lungo e diffuso, didatticamente più ricco, con una qualità dell’insegnamento elevata e sempre aggiornata, grazie a una formazione continua obbligatoria”.

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