
Più soldi per la scuola? Non servono se…
“Tuttoscuola” ha mostrato nelle scorse settimane, analizzando i dati Istat sulla spesa pubblica, come la spesa complessiva per l’istruzione (centrale e territoriale) abbia perso consistenza tra il 1990 e il 2005, tanto da comportare una minore entrata annuale valutabile in 4,2 miliardi di euro per il 2005, somma di cui avrebbe potuto disporre il MPI se si fosse mantenuta la percentuale del 10,3% sul totale della spesa pubblica registrata nel 1990.
Che cosa si sarebbe potuto fare con tali maggiori disponibilità finanziarie? Ci sarebbe stato ipso facto un corrispondente miglioramento della qualità del nostro sistema di istruzione? Molti non ne sono convinti, perché non è la quantità, ma è soprattutto la qualità della spesa che produce innovazione, cambiamento, miglioramento. Se tale somma fosse stata distribuita a pioggia su tutto il sistema, per esempio, fatto per oltre il 90% di stipendi, questi ultimi si sarebbero sensibilmente avvicinati alla media europea, avremmo avuto meno precari, ma non avremmo innescato alcun processo innovativo, che è legato soprattutto a diffusi fattori di tipo meritocratico, sia sul versante dell’insegnamento (carriera degli insegnanti e dei dirigenti) sia su quello dell’apprendimento (livelli di prestazione, e non livelli di promozione).
Su questo tema, anche se in un contesto di più ampie considerazioni sul nostro sistema Paese, è tornato con forza Francesco Gavazzi in un editoriale sul “Corriere della Sera“. A suo parere per fronteggiare con successo il fenomeno del precariato, convertendolo in positivo (passaggio fisiologico da un lavoro a un altro lavoro), serve un maggior grado di mobilità sociale, “cioè meritocrazia e buone scuole“. E conclude: “anziché illudersi di eliminare i lavori precari o investire danaro pubblico in ambizioni progetti di alta tecnologia, occupiamoci piuttosto delle scuole“. Ma, appunto, con un’ottica nuova, meritocratica.
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