Ma quel che serve è insegnare la curiosità
Nel dibattito sulla (carenza di) meritocrazia che caratterizza il nostro Paese interviene sul “Corriere della Sera” Francesco Giavazzi, professore di economia all’università Bocconi ma soprattutto teorico della svolta in senso liberale, competitivo e, appunto, meritocratico della società italiana, riassunta in una serie di riforme ormai note come “agenda Giavazzi“.
La tesi sostenuta dall’economista nel citato articolo, uscito lo scorso 15 novembre, è che all’origine dei diffusi fenomeni di ripiegamento corporativo e conformistico del nostro Paese sia un sistema educativo che non premia il merito, non stimola la competizione e soprattutto non insegna la “curiosità“, cioè la voglia di ricercare, scoprire, inventare.
Giavazzi non si riferisce solo all’università, dove la naturale curiosità dei giovani che aspirano alla carriera accademica viene “spenta da un sistema retributivo basato esclusivamente sull’anzianità” e dal conservatorismo dei cattedratici. A suo avviso “la curiosità nasce nella scuola perché se una mente a diciott’anni si spegne è difficile che poi si riaccenda. Ma rifondare la scuola non significa programmi ministeriali, tabelle, contratti, le cose di cui i governi si occupano e che non ne hanno evitato il degrado. E’ giunto il momento di una riflessione più profonda che parta dalla consapevolezza che è la scuola la chiave di volta del nostro futuro“.
Sembra quasi di riascoltare l’appello di Edgar Morin a perseguire lo sviluppo di “teste ben fatte” piuttosto che “ben piene“. Ma molto, quasi tutto, dipenderà dagli insegnanti, universitari e non. D’altra parte nel testo di Montaigne dal quale Morin ha preso in prestito la celebre frase (si tratta dei “Saggi“) l’invito era rivolto proprio agli educatori.
Se è così, diventa prioritaria la necessità di una maggiore qualificazione a monte del processo scolastico e di una maggiore efficacia delle attività di aggiornamento che oggi, in mancanza di un quadro generale di valutazione delle esperienze, ricalcano ancora modelli insoddisfacenti (visti gli esiti formativi degli studenti).
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