La disputa sul liceo tecnologico

Ci sarà un solo liceo tecnologico, o esso si articolerà in vari indirizzi, come peraltro consentirebbe di fare l’art. 2 della riforma Moratti? La sorte degli istituti tecnici industriali sembra essere la chiave di volta dell’intero progetto di riorganizzazione dell’offerta di percorsi di istruzione e formazione che costituiscono nel loro insieme il “secondo ciclo” previsto dalla riforma.
Lo si è ben visto a fine febbraio a Fiuggi, in occasione della riunione della commissione nominata dal Ministro per discutere sull’identità e sulle finalità degli 8 licei indicati dalla legge, e dal dibattito che ne è seguito, tuttora in pieno svolgimento.
Quali gli “schieramenti” in campo? Da una parte si collocano, capeggiati da Giuseppe Bertagna, i licealisti “puri”, sostenitori della “intrinseca propedeuticità” degli studi liceali, e del primato della “theoria“, ovvero del conoscere fine a se stesso. Se vincerà questa tesi, ci sarà un solo liceo tecnologico, con caratteristiche riconducibili a quelle del liceo scientifico-tecnologico già sperimentato nell’ambito del progetto Brocca, e quindi con nessuna declinazione di tipo settoriale e operativo. Ne risulterà un grande spazio per il canale professionale.
L’altro partito, capeggiato da Confindustria, sostiene invece l’articolazione del liceo tecnologico in più indirizzi, fino a 6-7, con chiare connotazioni settoriali (meccanica, elettronica, chimica ecc.) e un certo grado di “conclusività” (e poco spazio per il canale professionale: molti IPSIA seguirebbero gli ITI nel canale liceale “articolato”).
La partita, nelle mani del Governo, è importante (basti pensare che i soli istituti tecnici accolgono 935 mila studenti, il 38% dell’intera popolazione delle superiori) e del tutto aperta: si tratta di capire se in Italia nascerà un canale professionale ampio e diversificato, erede dell’istruzione tecnica e professionale, o se sotto l’ampio mantello della “licealità” troveranno rifugio praticamente tutti gli istituti tecnici e molti professionali, ulteriormente deprofessionalizzati, in fuga dalla prospettiva della regionalizzazione, vissuta come una “diminutio” e un salto nel buio.