La DaD fa danni, ma solo se non funziona/2. La DDI però è un’altra cosa

Il problema non è nella DaD in sé (unica leva di fronte alle chiusure obbligate per non perdere milioni di ore di lezione), ma nei limiti infrastrutturali (connessione internet, devices) e di competenze (una lezione innovativa, in classe o online, che si avvalga anche delle grandi potenzialità che le tecnologie offrono per un apprendimento coinvolgente non si improvvisa: ci vuole tanta formazione).

In primo luogo dunque vanno superati quei limiti, perché finché ci sarà questo virus (ed è ben lontano dall’essere sconfitto, purtroppo) o un altro (non lo si può certo escludere) i danni su una risorsa primaria quale è l’istruzione possono essere devastanti e il rischio va mitigato: non si può continuare ad essere impreparati. In secondo luogo bisogna distinguere la didattica a distanza (cioè “remotizzata”) dalla didattica digitale integrata (DDI), intesa come metodologia innovativa di insegnamento-apprendimento, indipendentemente dalla modalità di erogazione-fruizione.

Il nostro paese sconta in questi campi ritardi di anni, e la crisi pandemica – lo abbiamo detto dal primo giorno – poteva rappresentare una grande opportunità di imprimere un’accelerazione per colmare questi gap. Non lo si è fatto in questi lunghi nove mesi, se non con timidi tentativi o iniziative estemporanee, e forse proprio la demagogica demonizzazione della Dad che è stata fatta (che ha trovato terreno fertile proprio a causa di quei limiti strutturali), facendo un gran “mischione” tra Dad e DDI, ha sconsigliato i decisori politici.

Mancanza di visione? Confusione tra causa ed effetto? Timori di favorire le multinazionali del digitale (che poi lo spazio se lo prendono lo stesso, ma non più all’interno di un quadro di interesse pubblico)? Non è da escludere che qualcuno abbia compreso benissimo, ma si opponga perché sa che una fetta importante dei docenti in servizio non è pronta e non ha intenzione di cambiare l’approccio con il quale si è formata (tanto tempo fa) e che ha sempre praticato. Eppure l’interesse delle nuove generazioni (ossia la ragione sociale dell’istituzione Scuola) è un altro. L’insegnamento trova il suo senso se genera apprendimento, e allora bisogna concentrarsi sulle modalità che favoriscono l’apprendimento dei bambini e dei ragazzi di oggi, a mo’ di esempio dalle tradizionali tabelline e calligrafia all’avveniristico utilizzo dei droni e della realtà aumentata. In passato non era neanche immaginabile, ma ora che sono tecnologie disponibili perché non avvalersene. Non è un problema di presenza o distanza (ovvio che la presenza è insostituibile nella relazione educativa, ma perché lo studente non può, sotto la guida dell’insegnante, visionare materiali didattici multimediali a casa e poi discuterne in classe con compagni e docente?).

Il segretario della Flc Cgil Francesco Sinopoli facendo riferimento all’esito della citata indagine con la Fondazione Di Vittorio ha bocciato le ipotesi di tornare alla didattica a distanza, circolate in questi giorni: “La scuola per noi si fa in presenza – ha ribadito il sindacalista – e abbiamo lavorato perché si riprendesse in presenza. La scuola si fa a scuola anche se sappiamo che la didattica digitale integrata, come viene chiamata adesso, è già una realtà in questi primi giorni di scuola”.

Per la verità, andrebbe fatto osservare a Sinopoli e ai non pochi che la pensano come lui, la DaD e la didattica digitale integrata (DDI) non sono la stessa cosa. L’esigenza di ripensare l’insegnamento avvalendosi anche del valore aggiunto offerto dalle tecnologie digitali, nasce prima del Covid e resterà quando il Covid sarà solo un ricordo. Non è un caso se la DDI (hybrid learning) con il suo mix di presenza e distanza, ma soprattutto del meglio della didattica tradizionale e di quella innovativa, è a giudizio di moltissimi esperti a livello internazionale la didattica del futuro. Sarebbe bene che il nostro Paese non arrivasse ancora una volta tra gli ultimi a comprenderlo.