Intelligenza artificiale a scuola/1. Lo smartphone di ieri e quello di domani

Il ministro Giuseppe Valditara, dopo un iniziale fuoco di sbarramento verso l’utilizzo dello smartphone nelle aule delle scuole italiane, ha approfondito il suo pensiero inviando a Repubblica una lettera nella quale, dopo aver riconosciuto che l’intelligenza artificiale “ha il potenziale per rivoluzionare la società e di conseguenza la scuola”, ammette anche che “se introdotta con ragionevole cautela” essa “può essere impiegata per aiutare gli insegnanti a personalizzare l’apprendimento, ad adattare i contenuti in base alle attitudini individuali degli studenti, a monitorare i loro progressi e a fornire informazioni su come migliorare il loro rendimento”.

Evidentemente il ministro deve aver riflettuto sull’impossibilità di applicare il divieto contenuto nella direttiva inviata alle scuole dal suo predecessore Fioroni nel 2007 alla realtà delle scuole di oggi, per il 90% connesse a internet e quasi al 100% informatizzate e dotate di registro elettronico. A distanza di 16 anni da quel divieto la scuola (ordinamenti, organizzazione, spazi) è cambiata poco, mentre la tecnologia è cambiata molto: l’età di accesso all’uso degli smartphone si è abbassata fino ai primi anni di vita dei giovani delle ultime generazioni, la memoria e le potenzialità di impiego dei devices si sono enormemente accresciute, il web 2.0 è ormai universale, e si va verso il web 3.0, che sviluppa ancora di più l’interazione tra gli individui e l’integrazione tra le diverse aree di conoscenza, e il web 4.0 caratterizzato dall’interazione tra uomo e macchine.

Un mondo nel quale i giovanissimi sono a loro agio, ma la generalità degli insegnanti no. Forse per questo Valditara parla di “ragionevole cautela” nell’ingresso dell’intelligenza artificiale nelle scuole, e sostiene che “bisogna evitare di sovrastimare le capacità dell’intelligenza artificiale e di immaginare che possa sostituire l’interazione umana”, ribadendo il ruolo “decisivo” dell’insegnante “come guida”.

Il senso della presenza del tecnologico a scuola non sta nello strumento che aiuta l’insegnante a monitorare e a fornire feedback. Non si tratta di inserire a scuola nuovi tools tecnologici (le istruzioni operative emanate dall’Unità di Missione per il PNRR Istruzione per l’azione Scuola 4.0 vanno invece proprio in quella direzione, nel momento in cui fissano il vincolo di spendere almeno il 60% dei fondi in dotazioni digitali, a prescindere da quelle già nelle disponibilità di ciascuna scuola e dal modello e dal progetto che essa ha in mente di realizzare), ma di lavorare alla costruzione di un diverso assetto metodologico, coerente  rispetto al contesto e soprattutto al mindset dei discenti.

Il fatto è, ci sembra, che il ministro pensa ancora a un tipo di relazione educativa nella quale l’insegnante resta il protagonista, il soggetto primo dell’azione didattica, colui che usa “cautamente” lo smartphone e gli strumenti dell’intelligenza artificiale a supporto del proprio insegnamento, mentre la scuola che si preannuncia – quella più consona all’infosfera di cui parla Luciano Floridi – vede come primo attore l’alunno, il soggetto che apprende e che costruisce il proprio percorso formativo anche con l’indispensabile ausilio delle tecnologie, tra le quali avanzano i nuovi modelli di GPT-3, dei quali si parla nella notizia successiva. In questa prospettiva di personalizzazione del cammino formativo il ruolo del docente assume il profilo di un accompagnatore, di un tutor – che in latino è colui che protegge, che dà sicurezza – e non più solo quello del magister, che nel suo stesso etimo (“magis”) implica la superiorità del docente rispetto al discente, ma in realtà si esprime nell’autorevolezza garbata di chi sa far crescere. Occorre allora formare figure nuove che sappiano essere flessibili: tutor quando serve, facilitatori all’occorrenza, accompagnatori quando è il caso. E lo sapranno fare se sono davvero “maestri”, capaci cioè di accogliere il bisogno formativo e farsene carico. Da docenti a educatori.

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