Il sessantotto e l’istruzione. Un bilancio
Il cinquantenario del ’68 è trascorso in un profluvio di pubblicazioni sospese tra indagine sociologica, letteratura, memorialistica, ma non ha sempre (o non abbastanza) dedicato un’attenzione specifica al tema di che cosa il “mitico” (mitizzato?) sessantotto abbia significato per l’università e per la scuola in termini di mutamenti strutturali e di condizionamento dei comportamenti politici e sociali che hanno caratterizzato gli anni successivi.
A questa lacuna intende porre rimedio un sintetico ma compatto lavoro di analisi e riflessione recentemente apparso in libreria, e disponibile anche online in formato e-book, intitolato Il ’68 e l’istruzione. Prodromi e ricadute dei movimenti degli studenti (a cura di Luciano Benadusi, Vittorio Campione e Roberto Moscati, Guerini e Associati editori, Milano, dicembre 2018).
Ai curatori si devono l’introduzione e le conclusioni, tratte in particolare da Benadusi nell’articolo che chiude il lavoro, mentre i contributi tematici sono stati offerti da Luigi Berlinguer, Alessandro Cavalli, Donatella Palomba, Luca Salmieri, Enrico Pugliese, Giunio Luzzatto, Fiorella Farinelli, Maria Chiara Michelini.
La tesi sostenuta in questo lavoro è che “il ’68, almeno per quanto attiene al campo dell’istruzione, è stato sì un momento di rottura con il passato, un breaking point, ma ha avuto le sue pre-condizioni e i suoi prodromi nel periodo precedente, e molte ricadute sul periodo successivo”. Più convincenti e argomentati appaiono i contributi quando trattano delle ricadute (dalla affannosa riforma dell’esame di maturità alla liberalizzazione degli accessi universitari ai Decreti delegati), meno quando analizzano i prodromi, perché su questo punto ha forse ragione Berlinguer a parlare di una frattura, di un “fatto storico” caratterizzato da una forte ondata di antiautoritarismo, cioè dal “rifiuto della natura autoritaria della tradizione educativa e della sua struttura scolastica”.
Fu una responsabilità della classe politica e dirigente del tempo di non aver saputo prevedere e gestire le conseguenze della unificazione della scuola media (1962) sulla scuola secondaria superiore, alla quale affluirono, senza che ne fossero modificati e adeguati gli ordinamenti, masse di giovani fino a pochi anni prima destinati ai corsi di avviamento al lavoro e ovviamente non disposti ad accettare passivamente il carattere per loro eccessivamente astratto, autoritario e selettivo della didattica tradizionale, contestata in particolare negli istituti tecnici oltre che nei licei. Si aprì allora, come ricorda Benadusi, una lunga fase, tuttora aperta, di transizione “dalla scuola per pochi di stampo gentiliano alla scuola per tutti”, cioè a un modello di “scuola democratica” che sia anche una “scuola per la democrazia”, cioè per la cittadinanza attiva e il pensiero critico.
Forse per completare il quadro delle ragioni di questa transizione infinita e incompiuta sarebbe stata utile un’analisi di tipo storico-politico sulle cause del blocco dei processi decisionali innovatori che caratterizzò il funzionamento della Prima Repubblica negli anni successivi al sessantotto e di cui fu vittima a più riprese il riformismo scolastico: il bicameralismo perfetto, la debolezza e la breve durata dei governi, il potere di condizionamento dei partiti minori e delle correnti di quelli maggiori, il sistema elettorale iperproporzionale, quello che Alberto Ronchey chiamò allora il ‘fattore K’, cioè la discriminante anticomunista; ma anche il grave ritardo, per non dire l’aperta ostilità, con il quale il PCI di Enrico Berlinguer (morto nel 1984), Natta e soprattutto Occhetto dopo il 1989, guardò alla prospettiva di una alternanza di governo che coinvolgesse tutte le forze politiche riformiste, a partire dal PSI.
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