
Il messaggio delle Olimpiadi per l’integrazione tra i popoli e le culture/1

A parte l’avvenimento sportivo, le recenti Olimpiadi di Parigi hanno mandato messaggi degni di nota in altre direzioni. Innanzitutto il valore culturale aggiunto del Paese ospitante, il non edificante spot dei Paesi sovranisti riguardo al supposto transgender delle pugili, finito in una bolla di sapone, con tanto di medaglia per l’atleta e figuraccia di certa politica con i media complottisti al seguito. Ma l’evento che forse ha suscitato più commozione è stata la sfilata conclusiva delle squadre, che non si sono presentate in gruppi di nazioni solennemente inquadrati con tanto di bandiera, ma potremmo dire in ordine sparso con i segni della propria appartenenza sulle spalle, le medaglie al collo, in gruppi seppur definiti ma anche in stretto contatto tra di loro e nelle varie discipline sportive: etnie diverse, culture diverse, nazioni diverse, un canto comune e lo sport come sfondo integratore, da sembrare una festa per tutti.
Durante lo svolgimento delle gare correvano notizie di atleti naturalizzati da diversi Stati perlopiù europei anche se in fuga dal loro Paese d’origine; la stessa situazione si presenta anche per l’Italia senza che però sia stata offerta loro la cittadinanza, anzi anche quelli nati qui da genitori stranieri sono stati oggetto di denigrazione, nonostante il loro decisivo contributo al successo nelle varie competizioni. Per poter consentire a giovani di diversa nazionalità di partecipare all’attività di squadre o club abbiamo dovuto aggirare l’ostacolo, quasi di nascosto, per non disturbare la politica contraria all’immigrazione, approvare una leggina sul così detto “ius soli sportivo” che consentiva alle società sportive di tesserare ragazzi stranieri e se minorenni purché in regola con un anno di scuola.
Forse si tratta di prendere atto che i giocatori italiani di nascita sono piombati nel buio del decremento demografico e che per ragioni di competizione anche economica occorreva rivolgersi a stranieri ai quali, nonostante gli alti compensi non era possibile attribuire la cittadinanza italiana nei tempi necessari per esercitare la loro attività, come è successo in taluni casi di calciatori adulti.
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