I docenti ‘fanno’ la qualità della scuola. Come li formiamo e reclutiamo?
La scuola, che si voglia riconoscerlo o no, è fatta dagli insegnanti. Si può dotarla di tutte le attrezzature e gli strumenti più innovativi, ma chi li utilizza? Chi li rende vivi e attivi? Chi ne fa l’uso migliore possibile? Gli insegnanti. Ne abbiamo parlato nel numero di novembre di Tuttoscuola in un articolo a firma di Nicoletta Ferroni, insegnante alle scuole superiori.
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L’introduzione nella scuola delle tecnologie e che da queste si possa trarre qualche vantaggio dipende da loro, quasi completamente ed esclusivamente. Il lavoro di insegnante comporta non soltanto generali e specifiche conoscenze e competenze ma anche un grande senso di responsabilità. Insegnare significa mettere in campo tanta umana sensibilità e una raffinata capacità di ascolto, tutto riassunto in un atteggiamento mentale che permetta di crescere, in modo positivo, con l’esperienza. Non è un mestiere facile. Bisogna crederci e non basta. Bisogna essere appassionati, avere voglia di affrontare quello che, quotidianamente, oggi mette alla prova, rappresenta una sfida spesso anche sul piano personale. Una volta si diceva che bisognava esserci ‘portati’. D’altronde “una volta” il solo stare dietro la cattedra incuteva rispetto. L’insegnante godeva di uno ‘status’ socialmente riconosciuto.
“Una volta” il problema di motivare l’allievo non c’era: chi arrivava a scuola aveva ‘la motivazione’ di suo, una motivazione sostenuta socialmente perché studiare, come l’essere laureati, era sinonimo di cultura e la cultura era un valore. Il titolo di studio assicurava stabilità o riscatto sociale perché il titolo trovava riconoscimento sul piano economico, oltre che sociale. Oggi è un’altra cosa: andare a scuola è un obbligo. E oggi il titolo di studio non assicura né la posizione sociale, né un reddito commisurato all’investimento profuso nello studio. Eppure, oggi che l’obbligo lo abbiamo ampliato, allargato, esteso, ci troviamo ad affrontare un forte abbandono scolastico, la dispersione, i neet! Abbiamo i laureati che emigrano o che restano per essere impiegati nei call center a 500 euro al mese senza malattia, né ferie.
Si può chiedere agli insegnanti di rimediare a tutto questo?
Le scuole sono diventate sempre meno funzionali, persino come luoghi fisici, meno efficienti e, purtroppo, anche meno sicure.
Come sono stati affrontati i problemi della scuola italiana fino ad oggi? Quale risposta hanno dato le istituzioni all’esigenza di rinnovamento e alla perdita di credibilità del sistema? Per cominciare è stata ridotta la spesa pubblica indirizzata all’istruzione e, sull’onda di un poco opportuno risparmio, si è aumentato il numero di alunni per classe e si è provveduto ad un dimensionamento della rete delle scuole presenti sul territorio in modo tale da diminuire il numero dei Dirigenti scolastici e degli amministrativi mentre aumentavano pesi burocratici e responsabilità. Mentre le condizioni per una ‘buona scuola’ con una ‘buona didattica’ in ‘buone strutture’ diventavano cattive o pessime condizioni e si dichiarava, a parole, un grande impegno per migliorare ed innovare la scuola. Negli anni, per rispondere alle nuove esigenze della società, lo sforzo istituzionale si è concentrato sugli insegnanti e su tutto il personale scolastico: si è chiesto loro di più, anzi, si è preteso sempre di più facendolo passare come ‘valorizzazione’ delle professionalità. Agli insegnanti è stato chiesto di fare la scuola nuova, diversa, di renderla al passo con le esigenze degli studenti, delle famiglie, delle imprese, delle innovazioni tecnologiche, del mercato del lavoro. Sul piano della carriera e della retribuzione? Silenzio, anzi tagli, blocco del contratto, precarietà. Lo stesso ministro dell’Istruzione, Marco Bussetti, ha ricordato che all’estero, per gli insegnanti, sono migliori sia gli stipendi che le possibilità di avanzamento di carriera.
La professione docente è diventata un lavoro di ripiego per i laureati e la professionalità si è ridotta ad un complesso groviglio di competenze che vanno dall’assistenza sociale a quella psicologica, che comprendono aspetti sanitari, capacità di leadership, di competenze digitali, di abilità di animazione e facilitazione, di capacità e disponibilità ad offrire la più vasta consulenza, e competenze di progettazione europea, nazionale, territoriale e, certamente, didattica. E seppure l’Italia occupi quella posizione così in basso nella classifica OCSE per rapporto numero docenti-studenti, si richiede ai docenti che la didattica sia personalizzata, per gruppi classe, per gruppi di livello e, ovviamente calibrata e adatta ad ogni singolo BES, DSA e per tutte le differenti tipologie di disabilità! Se il docente dev’essere esperto nella didattica e nell’epistemologia della propria materia, deve anche saper proporre il sapere in modo ‘seducente’, attrattivo, coinvolgente. Inoltre, l’insegnante, deve operare da solo ma anche saper lavorare in team. Deve essere in grado di fungere da mediatore culturale tanto quanto da esperto burocrate. Sì, perché classe e contenuti disciplinari a parte, è sempre più impegnato in adempimenti amministrativi e ‘caricato’ di responsabilità.
Non è forse lecito chiedersi come e dove si acquisisca cotanta e variegata scienza e tante competenze professionali? Tante competenze appartenenti, spesso, ad altre professioni? Dove ci si procura un tale bagaglio? In quell’Università che, sul piano della metodologia didattica, non è essa stessa un esempio di eccellenza: il deputato on. Fusacchia, che ha evidenziato quanto sia importante la valutazione della didattica, ha rilevato che nella carriera universitaria sono considerati solo i meriti nella ricerca, mentre la didattica non viene valutata. È e sarà tristemente sempre così finché non si vorrà onestamente affrontare il problema anche nelle università.
Il nuovo Ministro si è espresso sul tema del reclutamento degli insegnanti in diverse interviste, ed ha evidenziato subito quanto sia necessario migliorarlo tanto in termini meritocratici quanto di trasparenza.
Che “l’età dei professori in Italia sia molto alta” sembra essere il fatto più considerato da molte parti: il problema principale, una delle ragioni della poca attrattiva della scuola sui nostri giovani, l’età dei docenti il motivo del suo stentare a rinnovarsi! Certo dopo anni e anni di insegnamento, di vita in una scuola oggetto di riforme continue e spesso aleatorie, in una società con radicali cambiamenti nell’educazione e nell’approccio alla scuola e alla cultura delle nuove generazioni, di studenti e famiglie, ci saranno anche insegnanti ‘stanchi’ e forse anche demotivati. Tuttavia, possiamo davvero pensare che il nocciolo del problema sia l’età dei docenti? Possiamo credere che abbassando l’età, con l’ingresso di insegnanti più giovani, si risolvano i problemi e si innalzi la qualità della scuola? Far leva sull’età e affidarsi al caso non sembra quasi la stessa cosa? A seconda dell’età anagrafica, possiamo essere sicuri che un individuo possa avere in sé o meno, quelle caratteristiche che lo fanno più ‘aderente’ al profilo professionale tra i più difficili e complessi? Quando manca un vero percorso formativo e, per giunta, senza che il profilo professionale del docente sia mai stato ben precisato né determinato? Non sembra neppure lecito pensare che, appartenendo ad una generazione più vicina a quella degli studenti, con essi si sappia instaurare un dialogo formativo positivo: servono conoscenze, capacità e competenze che solo l’esperienza può dare. E non è neanche certo che in persone più giovani ci sia quella grande disponibilità ad essere più flessibili, adattabili e produttivi. Bisogna appassionarle, motivarle e retribuirle adeguatamente: è la scuola di qualità che lo richiede. Abbiamo approfondito l’argomento all’interno del numero di novembre di Tuttoscuola.
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