Tuttoscuola: Il Cantiere della didattica

Frontale o capovolto: qual è il ‘verso’ giusto del docente?

di Carla Sacchi

L’appello che mette sotto accusa la didattica innovativa o digitale firmato da esperti che senz’altro avranno validissime motivazioni legate alla propria esperienza per sostenere tale tesi, mi ha mosso delle riflessioni che partono dalla mia esperienza quotidiana di insegnante nella comunità scolastica.

Lavoro con studenti adolescenti, che, in quanto tali, cambiano continuamente umori, idee e approcci al sapere. Studenti che il giorno prima amavano la cosa che oggi detestano, senza esserne consapevoli o fornendo motivazioni svariate.

Da educatore e docente non posso permettermi di non prestare attenzione anche al più piccolo dettaglio che muta all’interno del contesto di insegnamento-apprendimento in cui opero. Non voglio “fermarmi” nella mia professione a una visione di scuola, sebbene possa fornirmi delle sicurezze, ma voglio essere vigile e pronta a dar spazio al cambiamento che ogni giorno mi può essere richiesto.

Forse più che in altri gradi di scuola, nella scuola media la relazione, il dialogo, l’ascolto, la motivazione e l’aggancio che si riesce a creare con l’alunno sono tutto, ma richiedono al docente e al team docenti la capacità di padroneggiare tecnicamente molteplici approcci metodologici.

Ecco perché a volte mi serve la lezione frontale, a volte l’attività laboratoriale, il libro di testo o l’uscita didattica, altre volte mi “capovolgo”, non leggendo mai queste modalità e supporti come etichette riduttive, come l’ennesima innovazione imposta, ma come strategie che scelgo ogni giorno da professionista, anche rimodulando al momento quello che avevo pianificato, perché leggo negli occhi dei miei studenti che oggi serve altro. Non mi sento sminuita a lasciare la cattedra per lavorare tra i banchi o tra le isole o fuori dall’aula; non credo di aver sprecato i miei anni di studio e la continua formazione professionale se la mia lezione non è magistrale e non ho suscitato ammirazione in chi mi ascolta, perché non sono io il protagonista.

Lavorare per unità di apprendimento, quando posso, alternandole a lezioni più centrate solo sulla conoscenza, proporre un compito di realtà in alternativa al test con scelte multiple o risposte aperte, a me permette di lasciare maggiore spazio ai miei alunni, di renderli protagonisti e figure centrali nel proprio apprendimento, non illudendomi mai che facciano tutto da soli e che io sia solo un facilitatore, ma il ruolo di motivatore e di coach non mi dispiace affatto. Condividere le scelte e le progettazioni con un team di validi colleghi mi permette di confrontarmi e armonizzare la mia voce in una polifonia vantaggiosa per l’apprendimento dello studente.

Lo scopo dell’attività laboratoriale, nella cui validità credo e la cui efficacia ho osservato nel tempo, non è insegnare a realizzare manualmente un prodotto, non è mai solo un fare, è sempre e comunque apprendimento attraverso una messa in atto di abilità derivate da conoscenze apprese e operate con atteggiamenti dei quali gli studenti è necessario che siano aiutati a prendere consapevolezza. L’unità di apprendimento non è una complicata costruzione di un percorso su tematiche bizzarre per ottenere un improbabile artefatto. Non va “oltre” il fare quotidiano scolastico, è un modo diverso di presentarlo e lavorarci! Non è un dispendio insensato di tempo ed energie, non se lo progetti con e per i tuoi alunni e non pensi ad un immaginario catalogo di innovazioni perfette in cui pubblicarlo o un documento da redigere con tecnicismi e teorizzazioni estreme pensando di soddisfare dirigente e genitori. Non è necessario conoscere tutte le definizioni sulle competenze o seguire con attenzione le numerose ricerche in atto per pianificare una UDA che funzioni. La didattica per competenze è proposta per far acquisire, potenziare ed operare con le competenze, non per illustrare quotidianamente i filoni di tendenza del momento. E questo tipo di attività sono naturalmente inclusive e facilmente personalizzabili. Quando un gioco di ruoli fa dimenticare all’alunno con DSA che la lingua straniera non è un suo punto di forza e lo vedo motivato a  partecipare spontaneamente offrendosi di leggere, sento di aver centrato l’obiettivo, e non penso di esserci riuscita perché alle spalle avevo una Lim piuttosto che una lavagna di ardesia, né che lo abbia centrato perché avevo o meno lo smartphone in classe, né grazie alle slide piuttosto che al libro cartaceo senza espansioni online.

Siamo diversi gli uni dagli altri, vediamo le cose da prospettive diverse e abbiamo stili di apprendimento diversi ed una pur snella modalità unica potrebbe non funzionare. Non è solo il mezzo, la strategia, la disposizione ministeriale che mi consigliava una cosa piuttosto che un’altra a cambiare le cose, sono state le persone, le motivazioni, le relazioni, gli stimoli, insomma tutto quello che rende ogni giorno affascinante il mio lavoro. 

 

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