Formazione docenti: i 24 CFU in discussione

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Si può fare un primo bilancio dell’ultima novità introdotta dal governo giallo-verde, ed ereditata da quello giallo-rosso, in materia di abilitazione e di requisiti per l’accesso ai concorsi? Se ne è discusso in una tavola rotonda promossa lo scorso 24 febbraio dall’università di Roma Tor Vergata, Dipartimento di ‘Storia, Patrimonio Culturale, Formazione e Società’, con il patrocinio della Sicese (Sezione italiana della Comparative Education Society in Europe). Il risultato è stato una sonora bocciatura.

Con il coordinamento di Carlo Cappa, ordinario di Pedagogia a Tor Vergata e presidente della Sicese, hanno preso parola quattro docenti universitari particolarmente impegnati nel campo della formazione iniziale e in servizio degli insegnanti di scuola secondaria – Gabriella Agrusti, Università Lumsa; Massimo Baldacci, Università di Urbino “Carlo Bo”; Cristiano Corsini, Università di Roma Tre; Elisabetta Nigris, Università di Milano-Bicocca – e Andrea Gavosto, direttore della Fondazione Agnelli, che negli ultimi dieci anni si è dedicata in particolare all’analisi dei processi formativi.

Dopo il quadro comparativo internazionale tracciato da Gabriella Agrusti sulla base dei dati forniti dalla indagine Ocse-Talis, che ha evidenziato alcune problematicità e ritardi della scuola italiana (dall’età avanzata dei docenti all’assenza del mentoring e alla totale mancanza di indicatori sulla qualità e sulla efficacia della formazione iniziale, compresi i 24 CFU), è stato Massimo Baldacci a condurre una vera e propria requisitoria sulle misure adottate dagli ultimi due governi Conte in materia di abilitazione e di anno di prova, ma anche di formazione, dei nuovi docenti vincitori di concorso o comunque assunti a tempo indeterminato. Non si è ancora abbandonata la tradizionale logica sequenziale (prima la teoria, poi i laboratori, alla fine il tirocinio) mentre la più avanzata ricerca nazionale e internazionale punta su una logica di tipo reticolare, che intreccia i tre momenti.

Il buon insegnante, ha detto, è un po’ artista e un po’ ingegnere: deve essere creativo e apprendere dalla pratica (ma in modo “intelligente”, come voleva Dewey), ma anche saper dirigere il processo formativo dal punto di vista tecnico avendo di ciò, della professione esercitata e della attuale condizione giovanile, una precisa “consapevolezza storico-culturale”, secondo la lezione di Gramsci. Ma le attuali modalità di formazione iniziale dei docenti (con una parziale eccezione per i corsi di laurea di Scienze della formazione primaria) non vanno affatto in questa direzione. Tantomeno la formazione in servizio, della quale si parla in una notizia successiva.