
In Italia l’educazione civica era stata introdotta nel 1958 (ministro Aldo Moro) in forma integrata con la storia. Ma il decreto Moro, nato come dpr trasversale a tutte le materie della secondaria, e non all’interno di un disegno di legge organico di riforma degli ordinamenti, non poté trovare un “posto curricolare” all’educazione civica: ne fece infatti una materia di studio, ma senza voto e con orario minimo, non soggetto a verifica: due ore al mese in tutto.
La stagione del ’68 trovò la scuola priva di un robusto insegnamento della Costituzione che potesse porre un argine alle fantasie e radicare nella storia e nel diritto la possibilità di cambiare e di crescere in termini di libertà e di giustizia. Si introdussero assemblee studentesche e consigli partecipati, ma i decreti delegati degli anni ‘70 non riuscirono ad entrare nel sacrario degli ordinamenti e dei programmi, in attesa della mitica riforma della scuola secondaria superiore.
L’educazione civica continuò a vivacchiare, dimostrando in certo senso la sua inutilità. Sorte non migliore toccò a tutte le attività che Parlamenti e Governi vennero introducendo nella scuola, negli anni ’80 e ’90, talora per una sola breve stagione, in risposta ad altrettante emergenze sociali, nella forma di “educazioni” (alla salute, alla sessualità, allo sviluppo, alla legalità…).
La materia è stata ripresa dalla legge delega 53/2003 della Moratti e dal vigente Decreto legislativo n. 59 del 2004 sul primo ciclo, che parla di “Educazione alla convivenza civile” con sei ambiti di interesse (educazione alla cittadinanza, stradale, ambientale, alla salute, alimentare e all’affettività). Ripete quindi la scelta di farne una attività didattica integrata con altri insegnamenti. Una scelta abbandonata dal decreto legge Gelmini, che per la prima volta istituisce una disciplina completamente autonoma e di “pari dignità” con le altre.
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