Tuttoscuola: Il Cantiere della didattica

Dopo tsunami: diario dal Sud-Est asiatico

Circa 270 scuole hanno aderito all’appello lanciato insieme a Tuttoscuola. Ecco dove e come si sta intervenendo. Il primo risultato: è stato costruito un ponte di amicizia, questa la garanzia più seria che gli aiuti continueranno.

Dopo un anno, vogliamo tornare a rifletterci sopra. In Italia, negli ultimi giorni del 2005, a un anno dallo tsunami, tanti hanno scritto sui giornali, si sono tenuti incontri e dibattiti: “Come sono stati utilizzati i fondi raccolti? Che cosa se ne è fatto? Cosa hanno fatto le Istituzioni e le Organizzazioni non-governative?” Si discute molto, a buon diritto.

Anche noi vogliamo tornare a rifletterci sopra… ma vogliamo soprattutto riflettere sul dramma di tante morti “senza senso”, sulla manifestazione di quella “forza del male” che si è scatenata su tanti innocenti, e vogliamo anche riflettere su un’espressione di solidarietà così larga e diffusa come mai si era mai manifestata prima, solidarietà da parte di tanti italiani e di tanti insegnanti e studenti delle scuole del nostro paese.

Circa 270 scuole hanno aderito all’appello da noi lanciato insieme a Tuttoscuola e, di queste, quasi 200 ci hanno inviato a tutt’oggi i contributi raccolti. Grazie anche al loro sostegno le Comunità di Sant’Egidio dell’Indonesia e dell’India, che si sono mobilitate immediatamente con soccorsi di emergenza, fin dai primi giorni dopo la tragedia, sono riuscite a cominciare la ricostruzione in questa seconda fase, in particolare nelle regioni del Tamil Nadu, in India – di fronte allo Sri Lanka – e di Banda Aceh, in Indonesia – la zona a Nord del Paese -, le zone più colpite.

Tanti in Italia, associazioni e singoli, famiglie, giovani e anziani, davvero tanti ci hanno telefonato in questi mesi – e continuano a farlo… -, si sono rivolti a noi per dare il loro contributo, esprimendo così la loro fiducia nella Comunità di Sant’Egidio. Questo ha reso possibile un aiuto pronto e immediato alle popolazioni colpite, in particolare ai bambini, ma, vorrei anche dire qui in maniera personale, questo mi ha dato la possibilità di rendermi utile nell’aiuto agli abitanti dei villaggi indiani del Tamil Nadu, che ho visitato una prima volta a marzo e, più recentemente, nell’ottobre scorso.
E’ proprio di questi miei due viaggi che vorrei qui di seguito rendervi conto, volendo, almeno un po’, farvi partecipi delle esperienze che ho vissuto in prima persona.

Già nel mese di marzo 2005 eravamo stati – io e Francesco della Comunità di Roma – per la prima volta in visita ai villaggi del Tamil Nadu, nel Sud Est dell’India, di fronte allo Sri Lanka. E’ quella infatti la regione colpita dallo tsunami. Attraverso l’amicizia con un prete cattolico della diocesi di Tuticorin, abbiamo iniziato gli aiuti a 3 dei 21 villaggi della diocesi stessa colpiti dallo tsunami.
Con lui – di nuovo, come sempre, l’amicizia personale risolta un elemento determinate nella possibilità di aiutare gli altri che sono nel bisogno -, e grazie a lui abbiamo visitato i tre villaggi che abbiamo iniziato ad aiutare, inviando una prima somma di denaro raccolto, che sarebbe poi servita alla ricostruzione.

Complessivamente, in questi villaggi, sono morte 26 persone, ma i danni sono molto alti. In 7 villaggi (compresi i tre che noi aiutiamo) occorre ricostruire gran parte delle case. Si tratta di una zona da sempre molto povera: villaggi di pescatori dove la maggior parte della gente, anche chi ha ancora la casa, ha perso il necessario per vivere. Come spesso avviene, alla povertà di sempre si è aggiunto il dramma della devastazione.
Sono villaggi cristiani, si tratta infatti della zona della prima evangelizzazione in India, quella del tempo di Francesco Saverio.

La Caritas locale aveva distribuito aiuti di prima necessità e costruito dei rifugi provvisori per la gente senza più casa. Sono venute – ci raccontavano gli uomini di un villaggio – alcune organizzazioni straniere, che hanno fatto foto ed hanno portato qualche aiuto per la gente, per lo più vestiti e giocattoli per i bambini. Ma, a parte questi primi e sporadici aiuti, niente era stato fatto, per riabilitare la gente al lavoro (reti, barche, etc.) e per la ricostruzione delle case.

Kuthenguli è il primo villaggio che abbiamo visitato, a circa 110 chilometri a Sud di Tuticorin. Abbiamo incontrato lì 80 famiglie che vivono – ancora oggi – nei rifugi provvisori. Si tratta di baracche fatte di una specie di cartone ondulato con tetto in lamiera. C’è un unico serbatoio di acqua e due zone di cucina da campo. Abbiamo parlato con la gente. Gli uomini ci hanno detto che non avevano più nulla, solo i vestiti che indossavano il 26 dicembre. Una donna, ricordandosi che era l’8 marzo, ci ha detto che quel giorno la “festa della donna” era triste, ma sperava che, riavendo la sua casa, potrà festeggiare meglio l’anno prossimo.
Tanta povera gente, ancor più impoverita dalla tragedia dello tsunami, poveri ma pieni di dignità e di voglia di ricostruire la vita per sé e, soprattutto, per i propri figli. Abbiamo chiesto loro se avessero avuto bisogno di qualcosa di immediato, che avremmo potuto acquistare subito, stando lì in quei giorni. Hanno discusso un po’ tra loro in tamil… poi ci hanno risposto che non avevano bisogno di niente, gli servivano solo le reti e le barche per riprendere a lavorare e a vivere.

Abbiamo visitato i resti delle zone distrutte del villaggio. Si tratta di tutta la parte vicina al mare: è rimasto solo qualche pavimento di casa. Abbiamo visto e incontrato tanti bambini, sono di due scuole (una maschile ed una femminile). Abbiamo incontrato il parroco, P. Mariano, insieme al Comitato del villaggio, otto persone. C’è stata una specie di “cerimonia di amicizia” con loro, la consegna della medaglia di Sant’Egidio e la fondazione di una sorta di fraternità cristiana tra noi e loro, suggellata da una somiglianza particolare: loro, infatti, vivono nella regione dove è iniziato il cristianesimo in India, noi di Sant’Egidio ci raccogliamo a Trastevere, dove sembra sia iniziato il cristianesimo a Roma…. Il parroco ci ha raccontato del dramma del 26 dicembre, che era domenica: erano tutti in chiesa e per questo si sono salvati dalla morte – la chiesa, infatti, è più distante dal mare -! Il sacerdote lo ha spiegato in modo semplice è chiaro: con forza ha affermato “la domenica ci ha salvato!”. Quindi siamo rimasti a pranzo con loro.

Il giorno dopo – l’ultimo del nostro primo viaggio nel Tamil Nadu – siamo andati nel villaggio di Virapandiapatanam, dove si è svolta la Cerimonia della consegna delle reti ai capi famiglia: erano i primi aiuti che arrivavano in quel villaggio, per la ripresa della vita. Dopo una lunga notte, iniziata quel 26 dicembre, in cui quei pescatori non avevano più pescato nulla, ora potevano di nuovo prendere il largo: era come l’aurora di un nuovo giorno.

 

Nel secondo viaggio, quello di ottobre, a dieci mesi dallo tsunami, ha iniziato a delinearsi con maggiore chiarezza il quadro dei nostri interventi di aiuto, come Comunità di Sant’Egidio, in India. Si sono anche visti e, vorrei dire, toccati con mano, i primi frutti degli aiuti raccolti dalle scuole italiane con l’adesione all’iniziativa “Adottiamo una scuola in Indonesia” che, di fatto, si è estesa anche all’India e può e deve oggi essere rilanciata con lo slogan “Adottiamo una scuola nel sud-est asiatico”. Oggi il nostro piano di aiuti, che comunque continua ad operare anche con piccoli interventi di emergenza qua e là, si trasforma in modo complessivo in un piano di ricostruzione a medio termine, che di fatto si completerà nei prossimi due/tre anni. Oltre agli interventi più urgenti – che riguardano la riparazione di 343 barche meccanizzate da pesca, l’acquisto di reti e di corde, ed altri interventi più particolari – si tratterà della ricostruzione di diversi gruppi di case, quelle della gente più povera, in 14 villaggi, per un totale di 800 case.

Ma ciò che più conta è che … la ricostruzione è iniziata!!! Con i fondi che le scuole ci hanno versato finora, da noi inviati in India poco prima dell’estate, è iniziata la ricostruzione di 4 scuole primarie, in quattro dei 16 villaggi dove ricostruiremo le scuole. Così nella prima parte di ottobre, nella mia ultima visita in Tamil Nadu, si è svolta la cerimonia della “prima pietra” per la ricostruzione delle scuole, in tre dei quattro villaggi, alla presenza dei bambini e delle famiglie.

Era la mattina di lunedì 10 ottobre, quando sono arrivato nella parrocchia di Saveriarpuram, quella di Padre Lobo. Ero con il vescovo di Tuticorin, monsignor Ambroise, che mi ha anche accompagnato in diversi momenti dei giorni seguenti. Ci aspettavano le donne della zona, madri dei bambini della scuola, che ci hanno portato nella chiesa, la “sala bella” del villaggio, per un momento di ringraziamento. Quindi tutti nel grande piazzale dove abbiamo trovato, ben schierati con le loro divise, i 1200 bambini della scuola primaria, che ci hanno accolto con canti e saluti. Ognuno era fiero di presentare la sua classe, mentre le maestre, che si distinguevano dalle altre donne, le madri, perché vestivano di giallo, salutavano, applaudivano e guidavano la bella manifestazione. Da un lato, un po’ più sul fondo, ma anche loro visibilmente contenti ed orgogliosi, gli uomini.

Dopo una serie di brani adatti alla circostanza, alcuni presi anche dalla Bibbia, letti dalle maestre e dai bambini, siamo saliti sul palco allestito per l’occasione, per dare il via ai discorsi ufficiali. Parla Padre Lobo, esprimendo il suo ringraziamento a Sant’Egidio e all’Italia, quindi il vescovo e, alla fine, prendo la parola io.
Un ponte di amicizia è stato costruito tra l’Italia e il Tamil Nadu, attraverso il quale possono passare ed arrivare gli aiuti per tanti fratelli e sorelle sfortunati, che hanno subito la violenza dello tsunami. Oggi inizia una nuova stagione, quella della ricostruzione e della vita che riprende. Si inizia dalla scuola, dai bambini, è l’amore per il futuro. L’amicizia crescerà, il ponte si allargherà, insieme vogliamo portare questa responsabilità di costruire il futuro. Ed è davvero una responsabilità comune la scuola, è un grande segno di pace e di amicizia: quattrocento bambini cristiani insieme a seicento indù e duecento musulmani, ci dicono come è bello essere insieme, imparare insieme, crescere insieme. E le loro famiglie collaborano per sostenere l’educazione dei loro figli…

In corteo ci siamo avviati verso la scuola. Una parte è stata già costruita e il vescovo ne benedice le aule. E’ stato acquistato il terreno per la costruzione della nuova parte della scuola, che sarà iniziata quanto prima, mentre i fondi già inviati saranno utilizzati anche per l’acquisto dei banchi e dei materiali didattici. Dopo una breve visita anche al padiglione più vecchio, in parte già ristrutturato, in un clima di grande amicizia e di gratitudine per gli aiuti ricevuti, ci salutiamo.

Arriviamo quindi, io e mons. Ambroise, nella zona della parrocchia Our Lady of Snows, del nostro amico Padre Jerosin Kattar. E’ lì che si trova, infatti, il Centro per l’insegnamento paramedico, dove, in un’ala dell’edificio, è stato allestito il nuovo Computer Centre, con gli aiuti che abbiamo inviato all’inizio di luglio scorso. Seguiranno il corso le circa 30 ragazze che già studiano come infermiere e fisioterapiste nel piccolo Istituto.

Ci aspettano tutte all’ingresso dell’edificio, nel cortiletto, dove ci accolgono con i fiori e le candele accese nei piatti, com’è costume locale. Ci sono anche le insegnanti e gli uomini della Fondazione dell’Istituto: sono un po’ i “dignitari” della zona. Saliamo al piano superiore, dove si trova il Computer Centre: io taglio il nastro all’ingresso e, entrati al suono dell’inno indiano, il vescovo accende il primo computer, poi gli altri… tutti mostrano nella prima pagina un saluto e un ringraziamento alla Comunità. Anche qui una grande accoglienza: musica, saluti di benvenuto, ringraziamenti… ma, soprattutto, la fondazione di un’amicizia che vuole, in tanti modi anche da parte loro, continuare nel futuro.

Le ragazze, quasi tutte cristiane, studiano già da un paio di anni, seguendo questo corso paramedico. Visiteremo insieme, al piano ancora superiore, le sale dove si svolge il corso: sarebbe bene inviare aiuti anche per acquistare alcuni materiali utili al corso, se non indispensabili…. Ora che le trenta ragazze iniziano il corso di computer diventeranno esperte di informatica, sicuramente capaci di utilizzare internet e le email, grande collegamento con il mondo. Questo corrisponde ad un loro profondo desiderio, quello di non restare isolate. Così mi dicono quelle che parlano un po’ meglio inglese, sono desiderose di conoscere meglio che cos’è il mondo, e mi promettono che appena saranno capaci cominceranno a scrivere email… Dico loro che davvero la strada è buona ed è anche cristiana: aiutare la sofferenza dei più poveri – è quello che stanno imparando a fare come infermiere -, ma anche imparare ad alzare lo sguardo e saper guardare lontano, essere un po’ collegate agli altri e “cittadine del mondo”, così sono i cristiani.
Mi invitano a tornare da loro ed andrò a salutarle prima di partire il pomeriggio del mercoledì. Anche gli uomini mi salutano e mi accompagnano alla porta ….

Nel pomeriggio dello stesso giorno – mi sembrò davvero un giorno senza fine, cioè tanto pieno di fatti eccezionali da non poter finire tanto presto… – incontro 67 bambini che famiglie e associazioni italiane, attraverso noi, hanno adottato a distanza. Sono tutti lì, non manca nessuno, con le loro famiglie poverissime – per lo più si tratta di madri vedove. La maggior parte vengono da molto lontano, anche tre ore di viaggio, per incontrarmi e per ringraziarmi per l’aiuto che abbiamo cominciato ad inviare ai loro bambini. Si tratta davvero di povere famiglie o di “pezzi” di povere famiglie, spesso donne sole il cui unico grande sogno, così hanno detto più tardi nei colloqui personali, l’unico
sogno è quello di poter educare propri figli.

Un po’ stretti in una sala, insieme a Padre Starwin e ad un altro collaboratore della Caritas locale – attraverso di loro, infatti, faremo arrivare periodicamente gli aiuti per le adozioni a distanza dei bambini -, siamo stati insieme per circa tre ore, per conoscerci e per parlare del futuro. I bambini si presentano, uno per uno, alzandosi in piedi con orgoglio e dicendo forte il proprio nome e il villaggio di provenienza. Poi parla Padre Starwin, quindi prendo la parola io, che sottolineo come i primi amici per noi di Sant’Egidio, già dal 1968, cioè all’inizio dell’esperienza della Comunità, siano stati proprio i più piccoli, i bambini. Si trattava dei figli di tanti immigrati siciliani e calabresi venuti a Roma negli anni ’50, per cercare un lavoro e un futuro.
Quei bambini che incontrammo nelle baraccopoli intorno alla Roma degli anni ’60, e che aiutavamo a non essere bocciati a scuola, già alle elementari, per il solo fatto che parlavano dialetto e che i genitori non avevano modo di prendersi cura di loro… quei bambini sono stati i nostri primi amici, lo sono stati ieri e continuano ad esserlo oggi, i figli degli immigrati africani e dei paesi dell’est. Così – concludo – vogliamo che sia con i bambini del Tamil Nadu, vogliamo fare come Gesù disse ai suoi discepoli: “…non li allontanate… ma lasciate che i bambini vengano a me!” Sarebbe bello – penso tra me e me – che tante scuole italiane potessero scegliere di prendersi cura per due, tre, cinque anni e più… di tanti bambini in India, per regalare loro un futuro. La gente ascolta in silenzio, ma con tanta attenzione e con gli occhi spalancati… come fanno i poveri in India.
Dopo tre ore si conclude l’incontro… un po’ di commozione, qualcuno piange, un’amicizia piena di speranza inizia: dobbiamo rivederci.

Alla sera visito l’ospedale per lebbrosi di St.Joseph, tenuto dalle suore Francescane missionarie di Maria. Tre di loro erano presenti la mattina all’Inaugurazione della Scuola di Saveriarpuram. E’ lì che ci siamo incontrati e che mi hanno invitato ad andare da loro. Erano contente dell’invito, anche perché con l’occasione lo avevano rivolto anche al vescovo, che aveva accettato e, effettivamente, seppure con un po’ di ritardo, quella sera sarebbe venuto a cena da loro.

E’ stata una visita commovente. Si tratta di un ospedale un po’ fuori Tuticorin, abbastanza bello nella costruzione, con molto verde intorno. Ci si trovano circa un’ottantina di malati di lebbra, per lo più anziani, molti ridotti abbastanza male. Inoltre molti malati di AIDS – complessivamente circa 150 – hanno l’ospedale come punto di riferimento. A gruppi e temporaneamente risiedono in alcune parti dell’edificio, nei periodi in cui si sentono più male ed hanno bisogno di cure e di attenzione. Di attenzione, debbo dire francamente, ne hanno molta.

Amicizia e simpatia da parte delle 19 suore francescane che vivono lì e, poi, molte cure appropriate. Per loro c’è cibo buono e medicine, che non potrebbero avere nei villaggi dove abitano: purtroppo non ancora – e chissà se mai sarà possibile averli – farmaci antiretrovirali, gli unici che potrebbero davvero curarli. Questi farmaci si hanno in strutture statali, ma non in istituzioni private, come l’ospedale.

Passo tra i letti delle corsie: tanti sorrisi, saluti, domande. Sanno che vengo da Roma, mi chiedono del Papa, la maggior parte sono cristiani. Una donna anziana, immobile sul suo letto e con la faccia quasi mangiata dalla lebbra, mi racconta che ha seguito in televisione i funerali di Giovanni Paolo II… mi chiede se io c’ero e che cosa ho visto.
Un’altra, forse un po’ più giovane – è difficile in certe condizioni capire l’età… -, che vive nell’ospedale da quando era ragazza, avendo perso troppo presto i genitori e non avendo parenti, vuole darmi il benvenuto con una danza e mi chiede di fotografarla per poi inviarle la foto da Roma… un anziano, molto anziano – ha compiuto cento anni da un paio di mesi – mi chiede di Roma. Non mi vede, infatti non ha più un occhio mangiato dalla lebbra e con l’altro non vede quasi niente, ma gli fa piacere toccarmi la mano ed è contento che io gli racconti le cose che conosco di Roma. Lui dice di esserci stato da giovane, non so se è vero… Mi saluta e mi ringrazia.

Accompagnato dalle suore vado a incontrare due donne malate di AIDS che stanno lì per un periodo, sentendosi particolarmente male. Sanno con loro due bambini di 10 anni, pressappoco. Uno dei due dice di volermi presentare suo padre: anche lui sta nell’ospedale, ma in un reparto diverso. Da quel momento il bambino mi accompagna nel giro, negli altri reparti, e mi lascia solo dopo che siamo arrivati, finalmente, nel reparto del padre. Tutto felice me lo presenta – parla un po’ inglese – e il padre è orgoglioso del figlio. La madre, non me ne ero accorto, ci aveva seguito e compare all’improvviso quando siamo insieme al padre: la famiglia è riunita e mi chiedono di far loro una foto. Quando il padre è arrivato all’ospedale, circa 6 mesi fa – mi racconta la suora che mi accompagna – pesava solo 30 chili, ora ne pesa 54. E’ il risultato dei farmaci e del cibo buono, dice la suora… è il miracolo dell’amore, dico io.
Stiamo quindi a cena insieme, anche con il vescovo che è arrivato. Parliamo, ci conosciamo meglio, io racconto di Sant’Egidio. E’ bello: dobbiamo continuare a vederci.

La mattina dopo, presto, arriviamo a Virapandiapatanam. Si tratta del villaggio dove, nella prima visita, quella del mese di marzo, consegnammo le reti ai pescatori, in quella bella cerimonia così ben preparata, ufficiale e famigliare al tempo stesso. Fu proprio allora che, visitando il villaggio, ci accorgemmo delle condizioni fortemente precarie in cui si trovava la scuola primaria. Proprio la settimana prima era crollato un pezzo del soffitto di una delle classi, non colpendo nessun bambino, per fortuna, ma rischiando di causare un vero disastro. Allora nacque l’idea di ricostruire la scuola. Grazie al contributo di sedici scuole italiane abbiamo raccolto oltre la metà dei fondi necessari per la ricostruzione della scuola, ed abbiamo inviato i primi contributi alla fine di luglio 2005.

Quella mattina tornavo a visitare la zona della scuola per la cerimonia della “posa della prima pietra” per la ricostruzione. Avevano preparato davvero una bella festa, nonostante quel martedì 11 ottobre fosse festa nazionale – chiamata Bujija, e caratterizzata da indù in maschera, che cantano, ballano e raccolgono soldi per se stessi e per i templi… – e nel giorno di festa le scuole fossero chiuse.
Ma i bambini sono venuti ugualmente alla Scuola. Tre bambine, vestite con l’abito bello per la danza, hanno inaugurato l’avvenimento. Dopo un discorso iniziale di Padre John, il parroco ed anche il capo del villaggio, ed altri interventi e saluti – io ho ringraziato dell’accoglienza e ho parlato della bellezza della festa, una grande energia di resurrezione che si manifestava anche nella danza, e Virapandiapatanam lo sa bene: lo abbiamo verificato a marzo ed anche in quest’ultima occasione…

Quindi il momento centrale: ci siamo spostati verso un altro punto della scuola, dove si è svolta la cerimonia vera e propria. Alcuni avevano già preparato i mattoni, la calce e scavato una bella buca per mettere la pietra. Quello che un tempo sembrava difficile da realizzare – sono le parole loro… – ora diventava concreto. Ora tutto era pronto per iniziare, tutto sembrava più possibile… Erano quattro mattoni rossi, che avevano inciso nella faccia più larga un segno profondo di croce. Dovevamo ricalcare quel segno tutti noi, con il dito bagnato dal liquido di vernice gialla che ci passavano, facendo il segno di croce.
Poi i mattoni erano messi a terra, nella buca, e murati. Seguiva il taglio del piccolo telo per scoprire la targa dell’inaugurazione e dedicazione della scuola, quindi un grande applauso, canti e ancora le danze delle bambine. Il progetto riguarda il rifacimento delle aule della scuola, la completa ricostruzione di nuovi servizi igienici, l’acquisto di banchi e di materiali didattici: i lavori iniziano alla fine di ottobre.

Nel primo pomeriggio, dopo altri incontri nella zona, per visitare diversi piccoli, ma preziosi, progetti di aiuto, torno nel villaggio per un incontro con pescatori, quelli ai quali abbiamo consegnato le corde per la pesca, a giugno scorso. Si tratta di un incontro di amicizia con la Comunità. Dovunque, infatti, portiamo gli aiuti, noi chiediamo la collaborazione della gente, per aiutarci ad aiutare soprattutto i più bisognosi. Nel caso loro, trattandosi di pescatori che posseggono delle barche, possono davvero aiutare, se messi in grado di riprendere il loro lavoro. Possono aiutare i più poveri di loro, quelli che non hanno niente. Questo si impegnano a fare, parlando insieme, e coinvolgendo non solo gli altri cristiani come loro, ma anche gli indù, che vivono in una certa parte del villaggio. Parliamo di solidarietà con tutti. Nell’amicizia tanti problemi – forse quasi tutti… – possono trovare la strada della soluzione.

Salutiamo tutti e risaliamo, con una certa fretta, in macchina, per partire alla volta di Uvari, che dista non più di venticinque chilometri, ma calcoliamo quasi un’ora per arrivare. Le strade sono strette e in cattive condizioni. Uvari è un villaggio ben più grande di Virapandiapatanam. Nonostante ci siano solo due preti diocesani, oltre alla parrocchia ci sono almeno altre sei chiese, dove i due preti celebrano regolarmente le messe. E poi c’è il grande Santuario di Sant’Antonio, sulla riva del mare, meta di numerosissimi pellegrini durante tutto l’anno, particolarmente il 13 di ogni mese. Arrivano al Santuario per chiedere grazie e guarigioni, e si accampano intorno alla chiesa, restando lì circa 1 settimana, anche se l’ideale è restare 13 giorni.

Arriviamo un po’ in ritardo, sia per la strada piena di gente, soprattutto in corrispondenza dei villaggi – era sempre la festa di Bujija… – sia po’ perché ci eravamo fermati a parlare in un centro vicino Virapandiapatanam del progetto di sostegno ad un corso parauniversitario per esperti del mare, pescatori e marinai, un progetto da studiare, ma estremamente interessante e prezioso per i giovani della zona.
Ci aspettano i due preti all’entrata della vecchia scuola, ormai semidistrutta e, attraverso un portico entriamo nel cortile dove sono tutti pronti e perfettamente schierati, chissà da quanto tempo, i bambini. Dietro a loro le insegnanti e le madri. Da un lato gli uomini.
Si ripete lo schema della cerimonia d’inaugurazione di Virapandiapatanam – mi accorgo che ci troviamo di fronte ad una vera tradizione…. Per la scuola di Uvari i lavori sarebbero iniziati la settimana successiva. Qui si tratta di demolire la parte piuttosto fatiscente che resta della scuola e di ricostruire tutto da capo. Dopo l’intervento della direttrice, di ringraziamento e benvenuto, prende la parola il parroco del villaggio, poi padre Starwin. Io ringrazio e propongo di continuare l’amicizia e la collaborazione. Seguono la danze e poi la cerimonia della “prima pietra”.
Mi portano quindi a visitare il villaggio, che è davvero molto grande… sulla spiaggia, numerosissime, le barche dei pescatori, piuttosto malridotte, aggiustate alla buona, che vengono tuttavia utilizzare piuttosto regolarmente. Probabilmente una parte di queste le ripareremo noi, con i fondi raccolti…

Torniamo in macchina verso Tuticorin… è piuttosto tardi e la giornata non è finita: mi hanno invitato ad un incontro con i leaders dei gruppi giovanili delle parrocchie, chiedendo aiuto e indicazioni su come realizzare tra loro una vita comune ed impegnarsi per gli altri. L’incontro dura un’ora, è bello e significativo, ascoltano con grande attenzione e fanno tante domande, ma il tempo corre…. a seguire, vado a registrare una trasmissione in televisione che sarà trasmessa il giorno seguente, sul nostro impegno di ricostruzione nel Tamil Nadu.

Le giornate sono molto lunghe… piene di incontri, segno anche di una voglia di parlare e di ascoltare, di un desiderio di rapporti umani che qui, anche tra la gente più povera, colpisce molto.
Avevo lasciato apposta libero lo spazio di mercoledì mattina, l’ultimo giorno – la sera sarei partito per Madurai, per raggiungere poi Bangalore il giorno seguente…-, per la visita al villaggio di Singhiturai. Si trattava di quel villaggio la cui ricostruzione è stata chiesta interamente alla Comunità di Sant’Egidio – case, scuola, servizi, ecc – in un terreno nuovo che si sta acquistando. Sarà collocato abbastanza vicino al mare ma più verso l’interno, in una zona dove, se le case fossero già state fatte lì, non sarebbero state totalmente distrutte dalla furia dello tsunami, come invece è avvenuto quel 26 dicembre.
Il villaggio, inoltre, si trova praticamene attaccato ad uno dei più grandi insediamenti musulmani della zona, costruito più all’interno, abitato da gente sicuramente più benestante. Tra i due villaggi c’è un Centro di Salute, inaugurato il 14 settembre scorso dal vescovo Ambroise, che sarà gestito da gennaio prossimo da alcune suore. Il Centro servirebbe in modo significativo le due comunità: cristiani e musulmani.

Mi aspetta alla sua parrocchia padre Gomez, che mi conduce, innanzitutto, a veder il terreno che stanno acquistando, dove il villaggio dove essere ricostruito. E’ molto grande… in un punto hanno già costruito una piccola casa, appena inaugurata: si tratta di un asilo nido per i loro bambini. Sarà gestito da due maestre inviate dallo Stato, ma insieme alle famiglie dei bambini. E’ un modo, lo capisco solo più tardi, per evitare che le famiglie siano costrette a mandare i loro bambini all’asilo-nido musulmano, nel villaggio attaccato, l’unico della zona. Lì non avrebbero alcun insegnamento cristiano.

Continuo poi a girare e, man mano che avanzo tra le case, aumenta il numero delle persone che mi accompagna nella visita. Un gruppo di uomini mi racconta quello che hanno vissuto la giornata dello tsunami. Mi fanno vedere il punto da cui l’acqua è entrata nel villaggio, le case distrutte, le famiglie ancora in rifugi provvisori… tanti bambini anche qui. Con sei uomini, alla fine, faremo una riunione insieme a padre Gomez… per dividerci il lavoro. Padre Gomez si incarica di scrivere un progetto dettagliato per la ricostruzione, un uomo disegnerà la mappa generale e le mappe particolari della zona, un altro farà un’indagine accurata presso le varie famiglie… e così via. Nasce una sorta di piccolo comitato per la ricostruzione. Ci salutiamo, pieni di speranze e di attese per il futuro. Nel pomeriggio parto, in macchina, dal Tamil Nadu, per raggiungere in tarda serata Madurai: la mattina presto c’è il volo per Bangalore.

Tanto, forse il più… resta da fare. Ma un ponte di amicizia è stato costruito: questa è la garanzia più seria che gli aiuti continueranno.

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