Autonomia, Bussetti: ‘Niente pregiudizi, è un’opportunità’

L’autonomia differenziata è nata con la riforma costituzionale del 2001, prevista dall’art. 116, terzo comma. Un maggiore federalismo è, dunque, possibile tenendo conto anche degli articoli 117 e 119 della Costituzione. La richiesta in tal senso delle regioni Lombardia, Veneto ed Emilia Romagna sta alimentando un vivace dibattito politico e istituzionale che merita la massima attenzione sotto il profilo dei contenuti e delle soluzioni. Sullo sfondo ci sono anche le criticità originarie del Titolo V, riformato dalla legge costituzionale n. 3 del 2001, e della sua mancata attuazione che in parte offrono ulteriori motivi alle richieste di singole regioni. La posta in gioco è alta perché non siamo di fronte ad un semplice trasferimento di competenze dello Stato alle Regioni, ma di una nuova logica di governo che comunque deve fare perno sul principio di leale collaborazione. Ne abbiamo parlato con il ministro dell’Istruzione, Marco Bussetti, in un’intervista all’interno del nuovo numero di Tuttoscuola.

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Ministro, lei è ottimista, eppure le voci preoccupate ci sono, come testimonia anche il documento approvato da quasi tutte le rappresentanze sindacali che temono la frantumazione dell’unitarietà del sistema formativo…
«La scuola è una sola in tutto il Paese. E l’unitarietà del sistema non è in discussione. Perché nessuno vuole creare squilibri o disuguaglianze. Anzi, penso che dare maggiore autonomia alle Regioni in grado di esercitarla possa essere un’opportunità. Significa destinare più risorse agli istituti, rafforzarli e sostenerli nella loro missione educativa. Nel rispetto delle specificità dei territori e in linea con le loro esigenze. È chiaro che lo Stato avrà sempre un ruolo fondamentale: sarà garante della qualità dell’offerta formativa e dell’effettiva attuazione del diritto costituzionale all’istruzione. Non c’è motivo di essere preoccupati: l’obiettivo è fornire maggiori e migliori servizi ai cittadini. Manteniamo un atteggiamento equilibrato e mettiamo da parte i pregiudizi».

 Entriamo nel merito: il processo di autonomia differenziata può avere effetti sul piano degli ordinamenti scolastici e su quello dell’organizzazione del servizio relativamente agli attuali criteri e parametri generali (ad es. rapporto docenti/alunni/classi; assegnazione agli insegnamenti in rapporto alle classi di concorso; ecc.)?
«Potremo approfondire questi dettagli quando il processo si sarà concluso definitivamente. Ciò che posso dire al momento è che la competenza sui programmi e sugli ordinamenti resterà all’Amministrazione centrale. Lo Stato, nel rispetto della Carta costituzionale, continuerà a svolgere i suoi compiti attuali. Ovvero definire un’azione politica che miri ad assicurare livelli di educazione e istruzione adeguati e servizi di qualità in tutto il Paese. E vigilare sulla sua effettiva attuazione. Sono comunque convinto, anche in virtù della mia esperienza di responsabile dell’ufficio scolastico provinciale di Milano, che gli uffici territoriali debbano avere un ruolo di primo piano nell’organizzazione dei servizi scolastici. Gli uffici territoriali sono invero il primo punto di riferimento per i cittadini, entrano in contatto con i loro diversi e specifici bisogni, con le concrete necessità delle comunità locali. È importante valorizzare il loro lavoro». 

La prospettiva del passaggio del personale nei ruoli regionali si rifà al modello della Provincia autonoma di Trento, dove è realtà. Come giudica una sua estensione ad altre Regioni? Quali criticità o possibili effetti positivi?
«Il modello è ancora in corso di definizione. Ci sarà certamente una fase transitoria per far sì che le novità vengano recepite gradualmente. E nessuno, comunque, sarà obbligato a passare da un ruolo a un altro. Ad ogni modo, penso che il principio che sta dietro il nuovo modello di reclutamento che abbiamo elaborato possa essere valido anche in questo caso: il nostro obiettivo è dare alle scuole i docenti di cui hanno bisogno. Ciò vuol dire bandire concorsi sulla base delle effettive esigenze dei territori. Chi vince va in cattedra, con un vincolo di permanenza. Una misura di giustizia sia nei confronti degli insegnanti, che in questo modo hanno la possibilità di programmare la propria vita con maggiore facilità e chiarezza. Sia nei confronti degli studenti, che possono vedersi riconosciuto il diritto ad avere una continuità didattica, senza cambi repentini di docenti». 

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