ATTUAZIONE DEL TITOLO V° E TRASFERIMENTO DELLE RISORSE DALLO STATO ALLE REGIONI – IL NODO DEL PERSONALE DOCENTE. PROBLEMI APERTI

Quelle che seguono sono semplici riflessioni, finalizzate ad aprire un dibattito, su di una questione che è veramente complessa ed il cui affronto richiederebbe oltre ad una competenza specifica capace di entrare nelle diverse dimensioni di carattere giuridico, amministrativo, sindacale e di altro tipo, anche un adeguato spazio di trattazione. L’oggetto: il trasferimento delle risorse dallo Stato alle Regioni, così come delineato e previsto nell’art. 28, c. 4 del DLgs 226/05; più in particolare il trasferimento alle Regioni del personale docente. Si tratta della questione cruciale, più delicata, e che maggiormente spaventa tutti, evocando ovunque paure e timori: dall’apparato statale e sindacale (inutile elencarne i motivi), agli insegnanti (per la paura di passare alle Regioni e di un conseguente declassamento o perdita di autonomia), alle stesse Regioni che pure lo reclamano (per la ragione opposta, ossia la paura di accollarsi l’onere, di non poco conto, della gestione degli insegnanti).

In mezzo a tutto questo, comunque, che lo si voglia o no, rimane la strada obbligata di quanto previsto dal nuovo assetto della Costituzione (e la nuova legge sulla devolution di fatto, su questa materia, non cambia sostanzialmente nulla), dettato costituzionale che la stessa articolazione della L. 53/03 e del Decreto legislativo 226/05 hanno dovuto tenere presente.

Ma cerchiamo innanzitutto di focalizzare le diverse sfaccettature del problema. Il nodo relativo al trasferimento delle risorse ed in particolare del personale docente deve infatti essere affrontato prendendo in considerazione e cercando al contempo di dipanare:

a) il complesso degli aspetti legati alla garanzia di erogazione di una offerta formativa adeguata alle domande e alle istanze territoriali e, quindi, all’esigenza da parte degli organismi territorialmente preposti (in primis le Regioni), in rapporto alla nuova configurazione degli assetti di competenza disegnata dal titolo V°, di assolvere coerentemente la propria funzione di programmazione;

b) la problematica relativa alle forme / procedure attraverso cui può essere attuato, con particolare riferimento alla modalità della “dipendenza funzionale” del personale, sia amministrativo che docente;

c) le diverse accezioni secondo cui può essere interpretata ed attuata la “dipendenza funzionale”.

Ricordiamo innanzitutto come l’”oggetto” stesso con cui si ha a che fare (il cambiamento del “sistema educativo”) possieda una natura complessa, dove ogni elemento o aspetto interagisce con gli altri, in modo tale che sul piano dell’effettualità risulta impossibile mettere mano ad uno di essi indipendentemente dall’altro e secondo un ordine logico e/o cronologico. Detto altrimenti: risulta praticamente impossibile affrontare prima un aspetto e poi l’altro; occorre un approccio sistemico e la capacità di vedere e muovere i “pezzi” contestualmente. Impossibile, ad esempio, affrontare la partita della riforma del sistema educativo senza attuare (non solo richiamare) le nuove competenze previste dal titolo V°, dato il nesso strettissimo (pur nella loro necessaria distinzione) tra piano ordinamentale, programmazione dell’offerta e livello gestionale-amministrativo. La connessione sta in prima battuta nei fatti e nella realtà delle cose: per dare effettività alla programmazione, nell’ambito del quadro ordinamentale dell’offerta, occorre poter conseguentemente e coerentemente agire sulla leva della attribuzione delle risorse; il che implica sia la competenza legislativa e la potestà regolamentare in materia di organizzazione scolastica (programmazione del servizio, determinazione dei criteri e distribuzione delle risorse e degli organici, vigilanza e controllo, ecc.), sia, ovviamente, la stessa disponibilità delle risorse. E’ per tali ragioni che, come sostenuto dalla Sentenza n. 13/04, alle Regioni spetta fin da ora di legiferare e gestire gli organici.

Dal punto di vista normativo, d’altra parte, il titolo V° della Costituzione, cui la stessa Sentenza si riferisce, traccia la strada obbligata di una ridefinizione delle competenze che circoscrive, com’è noto, la potestà esclusiva dello Stato alle norme generali, ai principi fondamentali ed ai LEP. Ed il nuovo testo di legge costituzionale di modifica dell’art 117 (c.d. devolution), non stravolge di fatto il Titolo V°, apportando un ampliamento delle competenze regionali già previste dallo stesso, in un quadro dove rimangono fermissimi sia il limite delle norme generali sull’istruzione, sia quello dei LEP. Nel contesto normativo disegnato dalla L. 3/01, anche in materia di istruzione il livello gestionale ed amministrativo non è più competenza statale, ma riguarda il livello territoriale regionale. La logica e la demarcazione tra ambito della “norma” ed ambito dell’erogazione del “servizio” risulta chiara: le norme sono prescrizioni di carattere generale, rappresentano un “prevedere”; il servizio è un fare in concreto, un “provvedere”, implica organizzare, erogare prestazioni, rilevare e soddisfare bisogni. La gestione del personale non è questione di carattere normativo, ma di amministrazione; e, quindi (sempre in materia di istruzione, giacché l’istruzione e formazione professionale è competenza esclusiva delle Regioni), in base al principio di sussidiarietà verticale, non è di competenza dello Stato.

Appare sempre più difficile, d’altra parte, giustificare la presenza dello Stato in questo ambito, non solo a fronte delle esigenze di organizzazione e declinazione del servizio in rapporto alle specificità territoriali, ma anche a fronte dell’ulteriore variabile, prioritaria, rappresentata dalla connotazione in termini di personalità giuridica e di autonomia funzionale delle strutture territoriali di erogazione del servizio, ovvero delle stesse istituzioni scolastiche.

Sia per esigenze di ordine effettuale, sia di carattere costituzionale e normativo, le competenze amministrative e le relative risorse, comprese in esse il personale docente, devono dunque essere trasferite dallo Stato ad altra Amministrazione. E qui si apre la discussione: quale Amministrazione? secondo quali forme e modalità, anche transitorie?

Se il cambiamento che si intende realizzare vuole essere reale, occorre che alla potestà di governo delle Regioni si accompagni la disponibilità degli strumenti e delle risorse dell’amministrazione (uffici e strutture periferiche del MIUR: sempre in base alla Sentenza n. 13/04 gli Uffici scolastici regionali non hanno più ragion d’essere), nonché del personale, amministrativo e docente. Ciò deve avvenire nell’ambito dell’attuazione delle competenze di cui sopra ed ai fini di realizzazione del processo di autonomia delle istituzioni scolastiche (nonchè nel rispetto della libertà di insegnamento del docente). Come? Per quanto concerne i beni e le risorse strumentali delle strutture, la cosa appare abbastanza (si fa per dire…) semplice: basti pensare ai meccanismi ed alle procedure di trasferimento già previste in attuazione del DLvo 112/98. Quanto alla tecnostruttura periferica del MIUR, è già iniziato un processo di decentramento e di articolazione territoriale; alcuni aspetti di tale transizione, soprattutto per quanto concerne i CSA, sono ancora da completare (si è insomma a metà del guado e queste strutture mantengono una sorta di doppia fisionomia); rimane comunque ancora il fatto che tali Uffici permangono come articolazioni del Ministero e dell’amministrazione statale. Un loro trasferimento, in termini non solo di funzioni, ma anche di risorse (personale), non appare comunque particolarmente problematico, almeno come quello che comporterebbe il personale docente.

Sulla questione docente insistono infatti diversi elementi, che conviene tenere concettualmente distinti, ai fini di una analisi capace di favorire una adeguata risoluzione del problema: stato giuridico, ufficio e funzione, formazione, reclutamento, contratto, stabilità del rapporto e mobilità, identità del datore di lavoro. Non intendiamo assolutamente sviscerare in questa sede tutti questi problemi, ma indicarne semplicemente l’ambito, ai fini di una possibile risoluzione.

Stato giuridico – ufficio (ovvero attività di insegnamento necessaria all’erogazione del servizio) e compiti/funzione docente (suoi contenuti essenziali) – formazione ed abilitazione (procedure per divenire titolari della funzione): sono aspetti rientranti nell’ambito delle norme generali, e quindi del potere legislativo di competenza dello Stato, ai fini dell’unitarietà del sistema.

Reclutamento: sicuramente per concorso pubblico; da verificare però quali sono le procedure più idonee, “chi” ed a quale livello/articolazione del sistema debba essere realizzato.

Contratto, con relative questioni legate alla mobilità: anche in rapporto alla funzione, è opportuno che venga mantenuto a livello nazionale, seppure in una logica di contratto quadro unitario (quale cornice rispetto a questioni generali su relazioni sindacali, retribuzione, orario di servizio, criteri generali sulla mobilità, condizioni per fruire della formazione in servizio, assenze, permessi, aspettative, ecc.), con possibilità di declinazioni territoriali e decentrate.

Datore di lavoro: appare difficile, alla luce di tutte le considerazioni fin qui sviluppate, giustificare ancora il ruolo dello Stato in questa materia. Dallo Stato il personale dovrebbe essere conseguentemente trasferito (anche in coerenza a tutti gli altri livelli di competenza trasferiti) ad altra amministrazione, secondo le due più logiche soluzioni (corrispondenti anche a scelte e modelli differenti) del trasferimento alla Regione o, direttamente, ai singoli Istituti, i quali, nell’ambito della propria autonomia funzionale, potrebbero anche costituirsi come sedi di concorso pubblico ai fini del reclutamento.

Rimane la questione tecnica, ma di enorme rilevanza politica, del relativo trasferimento delle risorse finanziarie a copertura degli stipendi (se sotto forma budgettizzata o di “zainetto”) e delle modalità di pagamento, attualmente centralizzato ed in capo al MEF.

Basta comunque questa prima, sommaria (e per certi aspetti approssimativa: non ce ne vogliano i tecnici…) ricognizione, per comprendere come il temutissimo trasferimento degli insegnanti non comporti assolutamente di per sé la perdita di garanzie precedentemente assicurate dallo Stato. Ciò riguardo alla fisionomia professionale, legata alla funzione e tutelata per legge: per mantenere infatti l’unitarietà della docenza occorre ed è sufficiente che i suoi elementi fondanti siano definiti o entro le norme generali o nei principi fondamentali, attraverso un nuovo Stato giuridico. Ciò riguardo anche alle garanzie contrattuali, giacchè il contratto, seppur reso più flessibile, può rimanere nazionale.

Rimane poi da sviluppare un secondo ordine di considerazioni, di carattere ad un tempo empirico e strategico, che riguarda la fase (sicuramente lunga ed articolata) di transizione, fase in cui dovranno essere costruite ed assicurate le condizioni regionali del trasferimento, a livello normativo (leggi quadro regionali) ed a livello amministrativo. In tale fase diviene quasi necessario prospettare una gradualità ed un insieme di soluzioni anche differenziate tra le varie Regioni (geometria variabile), dove la tecnostruttura amministrativa statale continua a funzionare, in una logica di supporto a funzioni attribuite alle stesse Regioni. Non avrebbe infatti senso smantellare di colpo, senza avere predisposto le opportune condizioni sostitutive, una macchina che, seppur elefantiaca, a tutt’oggi garantisce determinati servizi.

In quest’ottica diverrebbe strategica anche la soluzione di un trasferimento “funzionale” del personale docente, di un personale, cioè, che continuerebbe a mantenere come datore di lavoro lo Stato, passando alle dipendenze regionali solo per gli aspetti relativi alla politica programmatoria ed organizzativa dell’offerta territoriale. Da un punto di vista tecnico potrebbe realizzarsi nella forma dell’assegnazione funzionale di personale ovvero del distacco; il personale manterrebbe il proprio rapporto di lavoro con lo Stato, dipendendo invece dalla nuova amministrazione (Regione) per quanto concerne la sua concreta attività lavorativa. Si tratta di modalità e di esperienze già attuate in Italia e nei diversi livelli dell’amministrazione pubblica.

Accanto ai vantaggi, occorre però segnalare anche i rischi, ossia che tale soluzione tecnica si presti ad una operazione di tipo nominalistico-conservatrice, finalizzata a non incidere realmente sugli attuali assetti, introducendo solo nuovi elementi in un corpo che rimane sostanzialmente immutato. All’insegna del “tutto deve cambiare, perché tutto rimanga come prima”.

Il panorama italiano già si presenta con i tratti tipici della società di “ancien régime”: la categoria, invenzione (politico-pubblicitaria) rivoluzionaria, forgiata con il preciso scopo di segnare nell’immaginario collettivo una decisa soluzione di continuità col passato (definito tout court come “vecchio”), non riflette la realtà storica della società francese di allora, contrassegnata da un inestricabile miscuglio di vecchio e di nuovo, come un corpo attraversato da spinte e dinamiche innovatrici, ma sostanzialmente legato ed irrigidito nelle vecchie forme e logiche. Così il nostro Paese: alle “iniezioni” di novità, corrisponde una sostanziale rigidità degli apparati e delle istituzioni, rigidità culturale e mentale innanzitutto, ma anche fissata nelle procedure e nei comportamenti amministrativi che continuano – in barba agli stessi dettati normativi – come se tutto fosse come prima.

L’auspicio, invece, è che nella fase decisiva transitoria, si individuino con senso di responsabilità le soluzioni tecniche adeguate alle specifiche realtà ed ai problemi, e che tali soluzioni si costituiscano come passi concreti di un reale cambiamento, alla luce di una visione di più ampio respiro e sinceramente riformatrice.