Pil, istruzione e… futuro

Una misura dell’impegno di una nazione per investire in istruzione è data dalla percentuale di Pil (Prodotto Interno Lordo). Vale a dire, quanta ricchezza in Italia e nei Paesi europei viene riservata all’istruzione.

La Danimarca investe per l’istruzione quasi l’8% del Pil, la Germania il 7,9%, la Svezia quasi il 7%, la Francia il 5,6%. Mediamente, secondo i dati rilevati dalla Commissione europea, nel 2006 i Paesi dell’Unione hanno investito per l’istruzione il 5,05% della ricchezza prodotta (Pil).

L’Italia si è fermata al 4,7%, sotto la media europea e davanti solo a Paesi come Repubblica Ceca, Spagna, Bulgaria, Grecia, Romania.

Ma in Italia è sempre stato così?

Dai dati forniti nei giorni scorsi dall’Istat, risulta che nel 1990, quando per l’istruzione le Amministrazioni pubbliche hanno speso per l’istruzione il 10,3% dell’intera spesa (la percentuale più elevata fino a tutto il 2008), la percentuale di Pil per l’istruzione è stata pari al 5,5%.

Da quel momento, però, la quota di ricchezza per l’istruzione è andata diminuendo, fino ad arrivare nel 2008 al 4,5%.

Per altri settori e servizi non è stato, però, così. Ad esempio, la sanità nel 1990 ha utilizzato il 6,2% del Pil, mentre nel 2008 il 7,1%.

L’investimento per la protezione sociale nel 1990 ha toccato il 16,1% del Pil, ed è arrivato nel 2008 al 18,7%. Un investimento mirato a salvaguardare il presente, ma che non guarda al futuro. Spieghiamolo in parole semplici: se i giovani di oggi non saranno in grado quando entreranno nel mondo del lavoro di produrre più reddito (e della relazione tra livello di istruzione e capacità di reddito ci sono ampie dimostrazioni scientifiche), sarà necessario investire una quota ancora maggiore del Pil nella protezione sociale di coloro che oggi sono in età lavorativa. E il circolo resterà vizioso e non si trasformerà mai in virtuoso…