
Viaggio nella scuola finlandese. Diario di bordo/2. L’autonomia professionale

di Tiziana Rossi
Il sistema educativo finlandese visto da vicino
La giornata dell’8 ottobre inizia al cuore pulsante della formazione insegnante finlandese: l’Helsinki Normal Lyceum (Norssi), scuola di formazione affiliata alla Facoltà di Scienze dell’Educazione dell’Università di Helsinki. L’edificio storico di Ratakatu 6 accoglie la delegazione trentina in un’atmosfera che mescola sobria eleganza e sperimentazione continua. Il motto latino scolpito all’ingresso, non scholae sed vitae discimus, non è una reliquia umanistica, ma una dichiarazione d’intenti che risuona nelle pratiche quotidiane.
Il vicepreside Ilkka Ahola-Luttila, che ha recentemente completato un MBA in Educational Leadership, ci accompagna tra corridoi, laboratori e classi dove giovani docenti in formazione affiancano insegnanti esperti. È una scuola “di sistema” e al tempo stesso un laboratorio di pedagogia viva: Norssi ospita infatti circa 670 studenti dalla primaria al liceo e centinaia di tirocinanti universitari impegnati nel loro practicum.
Leadership, autonomia e fiducia come pilastri
Ahola-Luttila parla piano, ma ogni parola è ferma. “In teachers we trust”, ripete più volte citando l’omonima pubblicazione, quasi fosse un principio etico prima che organizzativo. Racconta un episodio diventato proverbiale: un giorno lasciò in classe cellulare, portafoglio e chiavi; il mattino dopo tutto era esattamente dove l’aveva lasciato. Fiducia reciproca, autonomia professionale e responsabilità condivisa costituiscono la triade su cui si regge la scuola finlandese.
Nei suoi quindici anni di insegnamento, confida, solo una volta il dirigente è entrato a osservarlo in aula. Non esistono test standardizzati imposti dall’alto: l’unica prova nazionale è il final examination, al termine del liceo, che dà accesso all’università. Il resto è affidato al giudizio professionale dei docenti.
Formazione continua e apprendimento on the job
Per Ahola-Luttila, l’insegnante è prima di tutto un discente permanente. La laurea magistrale non basta a “imparare a insegnare”: serve pratica, osservazione, confronto. Il modello di formazione è infatti basato sul learning by doing e sulla costruzione di comunità professionali riflessive.
Non esiste un sistema nazionale di formazione in servizio obbligatorio: tutto è demandato alle singole scuole e ai dirigenti, che possono promuovere mentoring e cooperazione tra pari o anche non farlo – di fatto non esiste un programma nazionale e strutturato di accompagnamento dei nuovi docenti in una scuola, punto critico che egli sottolinea con una certa amarezza, ricordando che recentemente un giovane collega aveva lasciato il lavoro perché non adeguatamente supportato all’interno. Una logica di fiducia che, se da un lato alimenta autonomia, insomma, dall’altro espone a discontinuità di opportunità formative.
Ahola-Luttila non nasconde anche le ombre: la diminuzione dei risultati PISA in lettura e matematica, il crescente divario tra le scuole urbane e quelle periferiche, e un costo della vita sempre più alto (in alcune zone di Helsinki il valore degli immobili si aggira attorno ai 14.000 euro a metro quadro) che dissuade i giovani dal diventare insegnanti, nonostante stipendi dignitosi (circa 4.500 euro mensili). “Abbiamo bisogno di modelli di leadership umanistica”, dice, citando l’esempio dell’azienda italiana Brunello Cucinelli, “dove l’attenzione alla persona conti più della produttività.”
Söderkulla skola: comunità bilingue e valori condivisi
Nel pomeriggio la delegazione si sposta a Sipoo, piccolo comune bilingue a est di Helsinki. Qui sorge la Söderkulla skola, una scuola primaria in lingua svedese che accoglie circa 160 alunni, inclusi bambini con bisogni educativi speciali e iscritti al prescuola integrato nello stesso edificio. L’atmosfera è luminosa, familiare, con spazi aperti, laboratori e una palestra di 590 m² condivisa con la comunità locale.
La vicepreside Rebecca Backman racconta un modello educativo improntato alla fiducia e alla partecipazione. Le classi sono organizzate in piccoli teams, con nomi di animali che rafforzano il senso di appartenenza. Ogni settimana viene scelto un valore guida — “ascolto e non interrompo gli altri”, ad esempio — condiviso con famiglie e studenti, per poi essere valutato insieme il venerdì. Una volta al mese, l’intera scuola riflette sui valori comuni.
Gli studenti più grandi tutorano i più piccoli durante gli intervalli, insegnano falegnameria o giochi motori: l’educazione alla responsabilità passa attraverso la cura reciproca. A Söderkulla si applica anche il programma nazionale KiVa contro il bullismo, che coinvolge docenti, alunni e genitori in azioni preventive.
Tre anni fa, la dirigente Charlotta Sillman ha scelto di bandire i cellulari dalle classi: “Anche i bambini di sette anni venivano a scuola con lo smartphone in mano. Volevo restituire loro lo sguardo.” Un gesto semplice ma eloquente di leadership educativa.
Varia Vantaa: tra formazione e lavoro
La giornata successiva si apre a Vantaa, dove sorge il Varia Vocational College, un colosso dell’istruzione professionale con oltre 5.000 studenti distribuiti in cinque sedi. La coordinatrice internazionale Heidi Sirén-Karetie illustra un sistema che forma sia adolescenti sia adulti, con percorsi di apprendistato e qualifiche modulari basate su competenze, non su ore di frequenza.
Ogni qualifica professionale corrisponde a 180 competence points: 145 derivano dalle materie tecnico-professionali, 35 dai corsi generali (matematica, lingua, letteratura). La formazione è flessibile: uno studente può terminare prima se dimostra le competenze richieste. Nell’esame finale di qualifica, la valutazione è condivisa tra il docente e il tutor aziendale, una prassi che rafforza il legame tra scuola e mondo del lavoro e sconosciuta in Italia dove la valutazione è affidata ai soli docenti.
Le qualifiche e gli standard sono stabiliti da EDUFI, l’Agenzia Nazionale per l’Educazione, che accredita scuole e aziende. Il principio di fondo resta la responsabilità dello studente, che deve attivarsi per trovare il proprio tirocinio, con il sostegno dei docenti, altra differenza col nostro sistema che chiama la scuola al compito di attivare i PCTO individuando le aziende disponibili. I tirocini durano da quattro settimane a tre mesi, spesso nei mesi estivi, e in alcuni settori vengono anche retribuiti. Esempio concreto: in questa fase dell’anno, alle porte della prescrizione dell’uso di pneumatici da neve, i meccanici locali chiedono alla scuola la presenza in officina di studenti che li supportino e che vengono anche retribuiti per questo, oltre ad essere tutorati in stage – un esempio di modello ‘win win’.
Adult education e integrazione linguistica
Tra i corridoi di Varia visitiamo il laboratorio dei parrucchieri, dove studenti adulti di origine straniera stanno completando il loro percorso. La docente spiega che per ottenere la qualifica devono raggiungere almeno il livello B1 in lingua finlandese. L’integrazione tra formazione professionale e alfabetizzazione linguistica è una delle forze del sistema: la municipalità garantisce corsi per migranti, mentre la scuola coordina percorsi personalizzati.
Il modello finlandese si mostra qui nella sua concretezza: inclusione, rigore e occupabilità sono elementi dello stesso disegno. Altra notevole differenza rispetto all’Italia nella gestione dei percorsi di alfabetizzazione: se uno studente straniero si iscrive alla formazione professionale nel nostro sistema non necessariamente viene integrato strettamente il percorso di alfabetizzazione nel suo piano formativo, dipende tutto dall’organizzazione che l’Istituto potrà mettere in piedi per soddisfare questo bisogno. In alcuni territori si verifica la situazione per la quale il corso di alfabetizzazione sia erogato da altri enti e non integrato nell’offerta formativa professionale di quello studente; la percezione invece è che in Finlandia formazione professionale, alfabetizzazione degli stranieri e il rapporto di strettissima collaborazione con le aziende costituiscano un sistema integrato flessibile, efficiente ed efficace. Il modello consente di non produrre significative dispersioni e di garantire l’immissione con successo nel mercato del lavoro anche a partire da scarse risorse personali o familiari.
Lagstads Skola: una scuola svedese dal volto umano
Nel pomeriggio la visita prosegue alla Lagstads Skola di Espoo, scuola svedese che accoglie circa 600 studenti e rappresenta una minoranza linguistica (il 6% della popolazione finlandese). La dirigente Agneta Torsell accoglie la delegazione con tono diretto e ironico: “Assumo solo chi ama davvero i bambini.” Lo racconta ricordando che in genere si fa affiancare da studenti quando assume i docenti: sono i più acuti e diretti nel cogliere la profonda essenza di un essere umano. Racconta un episodio in cui aveva portato due alunni con sé ai colloqui di selezione, chiedendo loro di osservare il candidato. “Uno dei bambini mi disse: non credo che quella persona ami i bambini. E aveva ragione.”
La scuola di Torsell integra sezioni per bisogni speciali e un piccolo plesso ospedaliero. Crede nel tutoraggio dei nuovi docenti, affiancati da un “Godfather” che li guida nei primi mesi. È anche componente del direttivo dell’associazione Suomen Rehtorit ry, che rappresenta i dirigenti scolastici finlandesi e promuove benessere professionale e formazione continua.
Torsell non crede nei test scritti come unica misura del sapere: “Valutano la memoria, non la comprensione.” La sua leadership è un equilibrio tra fermezza e ascolto. Celebre nella sua scuola è l’episodio del LAN Party: inizialmente contraria, alla fine concesse agli studenti di organizzare l’evento notturno di gaming dopo aver visto la loro serietà nel pianificarlo. “Ho capito che avevano bisogno di fiducia, non di permessi.”
Alla domanda sulla recente legge relativa all’inclusione nelle classi ‘normali’ dei bambini con bisogni speciali, risponde che non crede nell’efficacia di integrare in grandi gruppi studenti con forme gravi o gravissime di disabilità comportamentali: i disordini oppositivo-provocatori, ADHD, autismo poco trarrebbero vantaggio in una classe di 25 studenti. Ella dirige una piccolo plesso accanto all’ospedale della cittadina in cui circa 40 ‘vite spezzate’ con severi problemi di questo tipo hanno tutte le cure e le attenzioni pedagogiche che col personale di cui la scuola dispone (4 docenti di sostegno) non potrebbero ricevere in classe.
Infine, mostra alla delegazione un piccolo peluche a forma di asinello: è la mascotte della scuola. “I bambini gli raccontano ciò che non riescono a dire a me”, spiega sorridendo. “E a volte anche io gli faccio dire ciò che un adulto non potrebbe.” È un gesto tenero e potente insieme, simbolo di una leadership che sa spogliarsi di ruoli e restituire voce all’infanzia.
Restituire l’osmosi educativa
Dalle aule universitarie di Helsinki ai laboratori di Vantaa, dalle scuole bilingui di Sipoo ai corridoi luminosi di Espoo, emerge un’unica costante: la fiducia come architrave dell’educazione. È un principio antico e fragile, ma tenacemente coltivato in Finlandia.
Il viaggio della delegazione trentina, in queste giornate di incontri, sembra aver toccato con mano la possibilità di una scuola che non separa teoria e pratica, ma le tiene in tensione vitale. Forse la lezione più grande è proprio questa, al di là delle differenze tra sistemi scolastici, società e culture: l’educazione, per restare viva, deve continuare a imparare da sé stessa.
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