Università sotto esame. La severa diagnosi di Cappa e Gavosto 

Come giudica la condizione  dell’università italiana l’inconsueta coppia formata da un accademico di area umanista come Carlo Cappa, docente di Pedagogia nell’ateneo di Roma Tor Vergata, e da un economista non accademico come Andrea Gavosto, dal 2008 direttore della Fondazione Giovanni Agnelli di Torino, coautori solidali (tanto da non voler distinguere i rispettivi contributi) della più recente analisi dello stato di salute del nostro sistema di istruzione superiore (C.C, A.G., Università sotto esame, il Mulino, 2025)?

La situazione dell’Università italiana è in una condizione che si riassume in una sola parola: critica, perché l’Italia ha una percentuale di laureati tra le più basse del mondo industrializzato (31% nella fascia 25-34 anni contro una media europea e USA del 44%), e la spesa per l’istruzione superiore in Italia è pari all’1% del PIL (contro l’1,4% della media OCSE), riflesso settoriale del sottofinanziamento dell’intero sistema di istruzione, che vede il nostro Paese agli ultimi posti in Europa (3,9% contro il 4,5% della media europea).

La diagnosi esposta da Cappa e Gavosto, per quanto ben sistematizzata e corredata da un imponente apparato di note e citazioni, non offre peraltro elementi di sostanziale novità rispetto a dati già noti. L’originalità del loro lavoro è piuttosto nello sguardo con il quale tali dati vengono esaminati, proteso alla ricerca di soluzioni che possano migliorare l’efficienza e l’efficacia del nostro sistema di istruzione post-secondaria non solo sul versante dell’università ma anche su quello, storicamente deficitario in Italia, dell’istruzione terziaria professionalizzante.

Le proposte più innovative riguardano il riassetto istituzionale dei percorsi universitari (pp. 186-189): non più il modello 3+2 avviato nel 1999 con la Dichiarazione di Bologna, finalizzata a rendere più omogeneo lo spazio europeo dell’istruzione superiore, ma una diversificata gamma di percorsi: un modello di base 4+1 (un primo biennio di formazione di base e orientamento, seguito da altri due anni più specialistici e da un anno di master professionalizzante); appositi “centri universitari” di durata quadriennale per la formazione iniziale e continua di maestri e professori con conferimento di laurea abilitante (si risparmierebbe un anno rispetto ai tempi oggi previsti); una terza filiera di percorsi triennali, a ciclo unico, a carattere vocazionale, destinati a riassorbire gli ITS Academy, “erogati da strutture apposite interne alle università o da istituzioni specifiche ad esse legate” (proposta quest’ultima poco convincente, data la storica e sperimentata inettitudine delle università italiane a gestire percorsi professionalizzati).

Un’altra proposta, coerente con la maggiore diversificazione dell’offerta di formazione terziaria delineata dagli autori, è quella di “indebolire” (non sopprimere, che sarebbe “velleitario”), il valore legale dei titoli affiancando al voto di laurea qualche elemento oggettivo di valutazione della qualità del titolo rilasciato (es. prestigio, riconosciuto internazionalmente, dell’università e/o del corso di laurea e/o dei docenti che hanno seguito lo studente).

Interessante e originale, infine, è la riflessione che riguarda le università telematiche, che non vengono considerate con sufficienza, e stigmatizzate come espedienti di scarsa qualità per conseguire purchessia titoli accademici con valore legale, ma interpretate, nel quadro della differenziazione e dell’arricchimento dell’offerta di istruzione superiore, come risposte tecnologicamente e organizzativamente più flessibili e innovative rispetto ai tradizionali corsi universitari in presenza.

È auspicabile che il sasso nello stagno lanciato da Cappa e Gavosto con le loro proposte contribuisca a far uscire l’istruzione superiore italiana dalla condizione di mera conservazione autoreferenziale nella quale essa, più che vivere, sopravvive.

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