Iscrizioni scuola dell’Infanzia: quel tour degli open day alla ricerca della soluzione ideale

Il prossimo 9 gennaio si apriranno le iscrizioni alla scuola dell’Infanzia. Lo scorso anno, in questo stesso periodo, così come è accaduto a molti padri, sono stato trascinato da mia moglie, educatrice e psicoterapeuta, nel tour degli open day, alla ricerca della scuola ideale per mia figlia. Considerata la sua formazione ed esperienza, avrei preferito di gran lunga lasciarle l’incombenza di dover scegliere quale scuola ha la “proposta formativa su misura per noi” (parole sue) ma, non so come, mi sono lasciato convincere e mi sono ritrovato all’interno di un vorticoso e frenetico calendario che mi ha permesso di fare importanti scoperte che vorrei ora condividere con voi.

In primis, il termine è sbagliato e non parlerei di “open day, ma “open days”. Per dare l’opportunità alle famiglie che lavorano e che quindi dispongono di poco tempo, ogni scuola concede l’opportunità di essere conosciuta in più occasioni, con orari diversi. Oltre al secondo e quarto martedì del mese, ecco spuntare il sabato mattina o, per i più impegnati, il venerdì pomeriggio. Il rovescio della medaglia è che, se ci sono aspetti poco chiari, angoli non visti o insegnanti che meritano una seconda opportunità, l’impegno si moltiplica, crescendo a dismisura: improvvisamente le riunioni di lavoro, gli appuntamenti pregressi, le lezioni devono lasciare implacabilmente posto ad un supplemento di visite, interviste, approfondimenti: è per il bene di nostra figlia, no?

Un secondo aspetto che mi ha fatto riflettere è legato alle modalità di relazione degli adulti, poco attenti ad ascoltare e spesso troppo preoccupati a parlare. Una costante degli open day è infatti il fuoco, non così amico, di domande che frotte di mamme, papà, nonni e zie (ci sono anche loro) nervosamente riservano alla malcapitata di turno, docente o coordinatrice che sia. “Qual è il vostro metodo?”, “Come affrontate i momenti di crisi dei bambini?” “La mensa è interna?”, “se dovessi arrivare tardi dal lavoro, chi rimarrà col bambino?” e potrei proseguire per intere pagine. Dopo il primo giro, avviene un fatto strano, le domande, magari con forme e sfumature diverse, vengono riproposte, inesorabilmente: “Avete metodi di insegnamento specifici?” “Mensa interna o esterna?” “è previsto un doposcuola o qualcuno che rimanga con i bambini in caso di ritardi dei genitori” ecc. Le docenti, eroiche, non mollano e animate di santa pazienza continuano a rispondere e, solo dopo il terzo giro, a volte timidamente, in altre occasioni con più fermezza rispondono, facendo notare di aver affrontato già la tematica ri-ri-ri-proposta. A questo punto, immancabilmente, parte un mormorio: ”Io non l’avevo sentito, altrimenti non avrei rifatto la domanda”, “non mi sembra che nessuno avesse chiesto dei metodi”, e così via. Le docenti, credo, che preferiscano di gran lunga i nostri figli a noi.

Dopo l’interrogatorio, o in alcuni casi prima, inizia il tour della scuola, svolto sia in assenza che in presenza dei bambini. È questo il momento in cui impiegati, banchieri, programmatori, casalinghe e avvocatesse diventano, di colpo, pedagogiste di fama, alla stregua della collega Montessori. Ogni particolare è usato per organizzare una precisa teoria, per confutarne un’altra, per esprimere desideri.

Al termine della visita avviene quello che, se fossimo nel rugby, sarebbe il terzo tempo. Attorno a caffè, cappuccini, te caldi e biscottini, si riorganizzano le idee, si promuove la docente che ha proprietà di linguaggio, si boccia quella vestita male. Io, e i pochi padri presenti, siamo in un angolo, abbiamo diritto di ascolto e di parola solo se interrogati.

La scuola in questi anni si è dotata di strumenti che hanno l’obiettivo di farsi conoscere, con maggiore chiarezza e serietà. C’è un piano triennale dell’offerta formativa , il famoso PTOF, nel quale è possibile trovare la vision e la mission dell’istituzione scolastica; contemporaneamente è stato istituto un Gruppo di Lavoro per l’Inclusione, che cura il Piano Annuale per l’Inclusione, un documento che non deve essere rivolto solo ai genitori degli alunni con BES, ma all’intera comunità. La didattica per competenze inizia ad essere digerita dai docenti, che sempre di più lavorano per compiti autentici ed usano i canali comunicativi della scuola (sito ufficiale, social, ecc) per far conoscere quanto fanno. Tre indizi, in questo caso, non fanno una prova.

I genitori, almeno quelli che stanno per entrare nel sistema scolastico, non conoscono questi strumenti e utilizzano altri parametri per valutare le scuole. Si cerca accoglienza, ma anche rigore (quella maestra è bravissima, un vero carabiniere!), la scuola deve essere curata esteticamente, ma facile da raggiungere, va bene avere un bel parco giochi, ma si richiede una buona “preparazione” in vista della scuola primaria.

Forse la scuola ideale non esiste, ed è un bene così. La scuola è ideale quando è costruita insieme, con l’intervento di bambini, docenti, educatrici, genitori, quando il clima è dato dalle qualità delle relazioni, che sono coltivate e custodite, quando i posti diventano luoghi, acquisendo dignità e valore. La scuola ideale si costruisce a fatica, giorno dopo giorno, grazie all’intervento di professionisti appassionati e di persone competenti.

Forse, a oggi, la difficoltà per me è quella di dover lasciare tutto questo, il nido “L’elefantino Elmer” di Roma,  che ha accolto in maniera fantastica Bianca quando era neonata e ci ha accompagnato in un percorso di crescita e di maturazione come genitori e, per lei, come bambina. Forse è per questo che non avrei voluto partecipare agli open day, per non dover elaborare il distacco ormai prossimo da quella che forse è stata per noi una scuola ideale, ed è forse, proprio per questo, che ho ricevuto con tanta insistenza, la richiesta di farlo.

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