Sull’istruzione degli ultimi si gioca il futuro del Paese e il significato della scuola

Riceviamo e volentieri pubblichiamo l’intervento di Mila Spicola, insegnante, pedagogista, Segreteria Nazionale del Partito Democratico, referente al contrasto della povertà educativa, sulla dispersione scolastica.

“Ho letto i vostri dossier recenti sui grandi mali della scuola italiana, per dirla con don Milani, “i ragazzi per perde” e vorrei aggiungere, se mi permettete, alcune considerazioni al vostro importante lavoro. I dati sull’abbandono scolastico nel nostro paese sono progressivamente diminuiti negli ultimi anni, passando dal 24% circa del 2008, al 13 % circa dello scorso anno. Non c’è tanto da gioire in realtà perché, a tale diminuzione, corrisponde in questi anni la persistenza dei divari nei rendimenti scolastici, tra Nord e Sud, tra centro e periferia, tra tipi di scuola e la persistenza del condizionamento sociale su tali rendimenti, per riprendere la stessa formula già utilizzata ormai più di cinquant’anni fa da Aldo Visalberghi. La situazione scolastica dei bambini, dei ragazzi e dei giovani nel Sud Italia è il nocciolo di una questione meridionale mai affrontata in questi termini che deve diventare questione nazionale. Il 30% delle famiglie siciliane vive intorno alla soglia di povertà e alla povertà di mezzi si accompagna la povertà educativa, come sappiamo bene la scuola non riesce ad oggi a compensare le condizioni di contesto. Le diseguaglianze, grande tema del dibattito di oggi nel nostro Paese, andrebbero analizzate proprio a partire dai grandi divari nei rendimenti scolastici. Un destino troppo spesso uguale a quello raccontato da Don Milani cinquanta anni fa, quando iniziarono a comparire i primi studi sulle relazioni tra rendimenti scolastici e condizionamento sociale.

Al Sud oggi come allora abbiamo troppi alunni di aree marginali che non riusciamo a recuperare nelle classi, che arrivano il primo giorno a scuola con un bagaglio di fragilità più pesante dello zaino, fragilità che spesso non recuperano, che compaiono puntualmente come ultimi nelle prove Invalsi e nei test Ocse Pisa, che si disperdono e che sono destinati a ingrossare la massa dei Neet, giovani che non studiano e non lavorano, di cui la percentuale più alta è proprio al Sud. Conosciamo da decenni questi dati, migliaia di dati sempre più raffinati nelle analisi, che seppur migliorano nella media certificano la persistenza del divario, divari che dicono sempre la stessa cosa, la scuola non riesce a neutralizzare il condizionamento socioeconomico familiare. Molto si è fatto ma non abbastanza, non sono sufficienti le tante (e belle) azioni puntuali svolte dall’associazionismo o dalle scuole, perché risultano discontinue e frammentate e non agiscono a livello sistemico. Il fenomeno dei dispersi, e tra i dispersi io inserisco gli ultimi nei rendimenti, è un fenomeno multidimensionale e strutturale contro cui è urgente porre a contrasto azioni come la riqualificazione e l’intensificazione dell’offerta formativa in un’ottica sistemica e ordinamentale sennò il male torna sempre. Ripensare l’organizzazione didattica su come ricomprendere dentro il sistema d’istruzione e non fuori il recupero degli ultimi in classe, oggi risolto con una lezione privata che un bambino povero non ha e con una bocciatura che troppo spesso ha.

La dispersione scolastica, che non è solo abbandono ma anche scarsi rendimenti scolastici o inadeguata formazione, è il frutto di quel che non facciamo. Eppure da quarant’anni si agisce in quelle aree, migliaia e migliaia di progetti, ingenti risorse comunitarie, attenzione e impegno non sono serviti per il semplice motivo che tali progetti non sono mai stati inseriti e pensati come azioni strutturali. Molti studi sottolineano come per assicurare il successo scolastico nelle aree marginali si deve investire nei primi tre anni di vita, si fa? No. Altrettanti studi sottolineano come sia nel segmento della scuola primaria che debbano recuperarsi le insufficienze, subito, prima che sia troppo tardi. Si fa? No. L’offerta di tempo scuola curriculare, quella che banalmente dovrebbe condurre tutti i bambini a saper leggere, scrivere e fare di conto, è veramente esigua esattamente laddove i ritardi sono maggiori. Chi rimane indietro nelle competenze di base spesso resta indietro.  Non si è fatto abbastanza se ancora oggi solo al 4% dei bambini di Palermo è offerto  il tempo pieno a scuola rispetto all’85% dei bambini di Torino e se solo il 7%  frequenta il nido a fronte del 45% dell’Emilia Romagna. Gli insegnanti per primi non hanno una sensibilizzazione in tal senso, se ancora oggi interi collegi di docenti non scelgono il tempo pieno al Sud e nelle isole.

Non chiediamoci puntualmente dove nascano e perché esistono la dispersione scolastica o il ritardo che si fa divario. Se non dotiamo ciascuno, con pari opportunità di accesso, da Duino a Lampedusa, della stessa offerta formativa di sistema, e dunque degli stessi strumenti di conoscenza e di competenza, sufficienti ad assicurarne lo sviluppo personale, la libertà sostanziale, l’esercizio di una cittadinanza effettiva e l’emancipazione economica, i divari permarranno. Non pensiamo che tutto si risolva con qualche progetto motivazionale sugli adolescenti in difficoltà, se pur bello e serio, fatto a ridosso dell’estinzione dell’obbligo. Se non si agisce alla radice, sul recupero delle competenze di base, fin dai primissimi anni del percorso d’istruzione poi diventa molto più difficile intervenire. Analizziamo la prossima legge di bilancio: tra gli annunci non compare nessun investimento nei servizi educativi per l’educazione prescolare, si balbetta di tempo pieno al Sud (questo vale per tutto l’arco parlamentare presente e passato) ma nulla di concreto è messo in atto, non si parla di riqualificazione della formazione professionale al Sud, né di diritto allo studio violato.   

I governi precedenti sui divari scolastici, ovvero sulla scuola al Sud e nelle aree marginali, scontano tante belle intenzioni purtroppo vanificate sia da un’eterogenesi dei fini nelle scelte compiute, sia dalle risorse insufficienti previste,  sia anche da classi dirigenti locali, a cui passano puntualmente il timone, che ripetono stancamente azioni che ai fini del miglioramento dei rendimenti si rivelano poco efficaci. Da questo punto di vista sarebbe utile un’analisi delle serie storiche dei test Pisa e dei test Invalsi fatte disaggregando i dati in senso diacronico e sincronico, per mettere in relazione rendimenti e tempo scuola ad esempio, cosa che è stata fatta sul rapporto tra rendimenti e frequenza del nido dalle comparazioni Pisa. Sicuramente una riflessione andrebbe fatta sull’organizzazione delle scuole: sui quadri orari, sulle rigidità, sull’isolamento di azione dei singoli docenti, soprattutto a partire dalla scuola secondaria di primo grado. Un modello organizzativo poco adeguato a comprendere e risolvere dentro la scuola le singole insufficienze. Al poco tempo dunque si somma una organizzazione di fatto poco adatta alle didattiche individualizzate, al lavoro comune di team educativi, quando altri sistemi di istruzione hanno investito e non poco in riforme volte ad mettere un modello preposto in modo specifico proprio al recupero delle insufficienze (Canada, Estonia, Finlandia).

Un altro grande capitolo è quello della bassa percentuale di aventi un titolo di formazione terziaria. Non uso apposta il termine “laureati” perché il grande assente nel nostro paese è il segmento di formazione terziaria qualificata di tipo tecnico professionale, corrispondente agli ITS, dico assente perché il numero degli ITS è così esiguo da non farne segmento. E’ esattamente quella platea che manca non solo alle statistiche, o allo allo scheletro economico e produttivo del nostro paese, no, manca proprio come esito qualificato di attitudini legittime e mortificate da un classismo gentiliano mai risolto che ha sempre considerato e considera di serie B quei percorsi, e in cui si confinano “i somari che non hanno testa di studiare”, come se fosse ammissibile un percorso d’istruzione in cui si dia per scontato che “non si debba studiare”. Eppure chi scrive pensa che la vera mobilità sociale democratica potrà attuarsi non solo perché il figlio di un operaio diventa medico, ma anche perché il figlio di un medico possa voler essere un operaio specializzato, magari con contenuti anche umanistici necessari a farne persona completa (perché gli debbano essere negati è una delle grandi domande che chi scrive si pone)  e competenze adeguate alla quarta rivoluzione tecnologica e non al passato analogico. O, più serenamente, ciascun ragazzo, a prescindere dalle sue origini, segua le sue aspirazioni, coltivi le sue attitudini, avendole comprese grazie a un’istruzione equa e qualificata e avendo maturato lo sviluppo personale e umano in senso totale, non a metà.

L’ultimo capitolo, connesso a quello precedente, è il sostegno economico alla formazione sia secondaria che terziaria: abbiamo ormai studi che certificano la relazione intercorrente tra abbandono degli studi terziari e difficoltà economica del contesto familiare. Su questo qualcosa è stato fatto nella precedente legislatura, la detassazione, l’aumento delle borse, ma ancora non basta, non copre tutte le spese, non arriva a tutti gli aventi diritto.

Che fare? Sperimentare modelli di scuole (o istituti universitari) che si auto organizzano verso ambienti di insegnamento e apprendimento flessibili, pretendendo un tempo scuola curriculare lungo, innovandone il modello,  organizzativo e didattico, specie nelle aree marginali; offrire la possibilità dell’asilo nido nei contesti difficili; riqualificare la filiera tecnico – professionale, anche a partire dall’orientamento, evitando una divisione per rendimenti e non per attitudini; riflettere nuovamente e meglio sulla finalità della scuola democratica: mirare allo sviluppo umano (che preferisco alla definizione di capitale umano) della persona, qualunque sia il percorso di studi scelto (e dunque non imposto dal destino); affrontare con una riflessione rinnovata il tema della trasmissione o condivisione del sapere insieme a quello delle competenze, come necessarie qualità della persona, della persona umana come microcosmo complesso di conoscenze e competenze tali da emanciparne la libertà in un macrocosmo ancora più complesso, renderne possibile la cittadinanza attiva, come dirigenti politici, mutuando un’espressione di Massimo Baldacci, cioè come soggetti di scelte, prima che l’autonomia economica e non ridurre il tema serio e importante delle competenze, utili ma non utilitaristiche, alla vulgata corrente, coltivata in ambiti extra pedagogici, di abilità professionali. Tutto questo significa riflettere in modo ampio e sistemico su un problema che è IL problema: la scuola, gli ultimi, la complessità del presente. Ed è utile farlo dentro la scuola e con la scuola.

Ecco, parlare di dispersione, di abbandono, di bassi rendimenti, significa affrontare tutto il tema di una visione democratica di scuola in termini sostanziali, non formali, in una logica di diritto democratico del singolo e di dovere civico dello Stato e di tutti i componenti a vario titolo a quella che si chiama comunità educante, che non è composta solo dal docente o dal genitore, ma dal paese intero, fatto di politica, cultura, società”.