Serve ancora studiare?/2. Negli USA crescono le alternative all’università

Se in Italia, come evidenziato anche recentemente da Almalaurea, il numero dei diplomati che si iscrivono all’università è da anni in calo (senza che ciò comporti una crescita significativa dell’istruzione superiore non universitaria), negli USA sta accadendo qualcosa di diverso. A lasciare i college e le università, anche prestigiose, non sono, come da noi, le fasce più deboli o meno motivate degli iscritti, ma al contrario gli studenti più brillanti, quelli che ritengono di aver imparato già abbastanza da poter mettere a frutto gli studi compiuti senza spendere altro tempo (e soldi) per completarli.

Il fenomeno non riguarda tutti i corsi di studio in modo indifferenziato, tocca maggiormente quelli che sono più legati all’innovazione tecnologica e all’immediato sfruttamento economico delle novità hardware o software messe a punto dai giovani che decidono di lasciare gli studi. Ne ha parlato qualche giorno fa Massimo Gaggi, attento analista della società americana, in una corrispondenza pubblicata sul Corriere della Sera (28/6).

Il prezzo da pagare, per i giovani che abbandonano gli studi, è quello di rinunciare ad estendere la propria formazione di base, o generale, a carattere multidisciplinare, per imboccare quella della iperspecializzazione (verso la quale, comunque, l’università USA è sempre stata più orientata rispetto a quella europea). Alcune grandi aziende americane guardano con interesse il fenomeno, e offrono ai giovani più brillanti e creativi l’opportunità di sperimentare e lanciare sul mercato le loro scoperte anche in forma di start-up.

E’ pensabile che qualcosa del genere accada anche in Italia? Sembra difficile, ma può darsi che le misure a sostegno dell’occupazione giovanile possano creare qualche opportunità per i giovani più dotati di talento ‘pratico’. E’ auspicabile che non vengano scoraggiati da opacità burocratiche.