Recovery Plan, 10 miliardi per la scuola: una svolta solo se…

Se qualcuno cullava l’aspettativa che il Next Generation EU potesse cambiare il volto della scuola italiana, sarà bene che non si illuda troppo. Non c’è spazio per voli pindarici, almeno in base alla prima bozza del «Piano nazionale di ripresa e resilienza» diffusa dai media.

Dei 196 miliardi di euro previsti in sei anni, il Piano ne riserva direttamente all’istruzione 10,1, ossia il 5,15%: fondi significativi, beninteso, per un settore che pur avendo una elevata spesa corrente (quasi interamente per stipendi) è sempre a corto di investimenti. Potranno certamente apportare miglioramenti (“potenziamento della didattica e del diritto allo studio”), ma non saranno in grado di cambiare da soli la qualità e l’efficacia del servizio scolastico, un’esigenza ormai improcrastinabile per il Paese.

Si tratta di 1,7 miliardi di euro all’anno per un settore che oggi ne assorbe circa 60 all’anno: un’incidenza del 2,8%.

È pur vero che al sistema formativo potrebbero arrivare fondi per altre vie. Secondo quanto risulta a Tuttoscuola, una quota dei 40,1 miliardi per l’efficienza energetica e la riqualificazione degli edifici dovrebbe essere destinata alla malmessa edilizia scolastica (il 58% degli edifici degli istituti superiori sono privi del certificato di agibilità, per citare solo un dato). Altre risorse potrebbero esserci per gli asili nido, e la scuola potrà forse trarre beneficio indirettamente anche da quelle destinate alla digitalizzazione, innovazione e sicurezza nella Pubblica Amministrazione. Ma per le ambiziose riforme che comportano specifiche spese aggiuntive occorreranno consistenti risorse fresche.

Ad esempio, per la generalizzazione del tempo pieno nella scuola primaria – una riforma annunciata due settimane fa dal premier Conte – servirebbero ogni anno 2,8 miliardi a carico dello Stato (per 50 mila assunzioni tra docenti e collaboratori scolastici) e dei Comuni (per servizi di refezione e trasporto), senza contare le spese necessarie per la ristrutturazione dei locali. Solo questo intervento assorbirebbe in pochi anni i 10 miliardi ad oggi noti. In quel caso, niente digitalizzazione della scuola, niente stabilizzazione del precariato, niente aumenti di stipendio, limitato rafforzamento del diritto allo studio. Aspettative entrate nella testa di molti negli ultimi mesi.

Si tratterà di scegliere se fare interventi a pioggia (come avvenuto con i fondi PON, 3 miliardi di euro per il periodo 2014-2020, che hanno alimentato la scuola “progettificio”, con pochi benefici visibili) oppure puntare forte su poche carte, per esempio su un grande piano di formazione del personale in servizio (ma di qualità).

Se si vuole arrivare alla scuola che sogniamo entro un decennio, anche approfittando del calo demografico, è meglio considerare, realisticamente, i fondi in arrivo come un fuoco di innesco – da dosare sapientemente – di un cambiamento che deve investire l’organizzazione del servizio, la diffusione di metodologie didattiche innovative che consentano il salto dall’insegnamento trasmissivo all’apprendimento coinvolgente, la personalizzazione dei percorsi formativi, il sistema di reclutamento, l’introduzione di una carriera e di una leadership distribuita con la fine dell’egualitarismo assoluto.

Insomma non è solo una questione di soldi, per i quali è ancora presto per tirare le somme, senza dimenticare che si può contare anche su alleanze e partnership che coinvolgano la società civile, a partire dalle Fondazioni di origine bancaria e dal Terzo settore. E’ anche, forse soprattutto, una questione di volontà e di coraggio di cambiare paradigma. Quale scuola vogliamo tra dieci anni? Bisogna condividere una visione di educazione equa, solidale, al passo con il progresso culturale, scientifico e tecnologico, che restituisca alla scuola la funzione di ascensore sociale.

Nessuna illusione. Solo se inseriti in una visione strategica sul modello educativo da adottare, i tanto attesi fondi del Next Generation EU potranno contribuire a dare al Paese il sistema scolastico in grado di renderlo competitivo, l’indispensabile motore invisibile sul quale innestare il rilancio.