Radiografia della povertà educativa in Italia

Si deve ai sociologi Orazio Giancola (docente di Sistemi educativi) e Luca Salmieri (docente di Sociologia della cultura), entrambi dell’Università di Roma La Sapienza, la più recente e aggiornata indagine su un fenomeno, come quello della povertà educativa, che inchioda la scuola italiana ad uno degli ultimi posti nelle classifiche comparative europee.

Il volume, intitolato La povertà educativa in Italia. Dati, analisi, politiche (Carocci editore, luglio 2023), si distingue da altri lavori di ricerca dedicati allo stesso tema, ma essenzialmente centrati sui livelli di apprendimento degli studenti, per la particolare attenzione riservata alla popolazione adulta, esposta nel nostro Paese, più che in altri, al rischio dell’analfabetismo di ritorno, soprattutto di quello di tipo funzionale, che oggi secondo l’Unesco (che ne ha introdotto la nozione nel 1984) si definisce come l’incapacità di eseguire calcoli matematici semplici e di utilizzare le tecnologie digitali di base, la scarsa o nulla conoscenza dei principali eventi storici, sociali e politici nazionali e internazionali, e la mancanza di senso critico.

Se il tasso di analfabetismo funzionale degli adulti italiani è così elevato, rilevano gli autori, all’origine del fenomeno non può che essere posta la debolezza della formazione di base da essi ricevuta. Conseguenza di decisioni politiche ed economiche che, nel tempo, hanno sistematicamente preferito investire le risorse pubbliche in altri settori, e non in quello dell’istruzione.

Così le riforme scolastiche, anche le più importanti come quella della scuola media unica (1962), non sono state accompagnate con adeguate misure di sostegno finanziario e di implementazione della qualità professionale degli insegnanti, malgrado le dichiarate finalità di riduzione delle disuguaglianze.  

L’opera, di taglio eminentemente sociologico, propone una serie di dati di carattere quantitativo, elaborando informazioni e statistiche in prevalenza di fonte OCSE, analizzate in modo minuzioso e sempre molto documentato, come mostra l’ampia bibliografia, attenta anche al dibattito internazionale. Non mancano, soprattutto nelle conclusioni del libro, riflessioni e indicazioni di carattere politico su come combattere la povertà educativa in Italia. Non certo, sostengono Giancola e Salmieri con notevole verve polemica, guardando al passato e al ripristino della “serietà” degli studi come propongono autori come Ricolfi-Mastrocola o anche Galli della Loggia e Scotto di Luzio (che peraltro, a mio avviso, leggono le vicende della scuola con lo sguardo lungo e disincantato dello storico che spiega i fatti e non li rilegge alla luce del presente), ma guardando al futuro con una serie di riforme che potrebbero rimuovere alcune delle cause di fondo della povertà educativa, all’origine della disuguaglianza delle opportunità. 

Che fare dunque?

Nelle conclusioni del loro volume – sottotitolate Che fare?, come un famoso libro di Lenin, che risale ai primi del Novecento – Giancola e Salmieri indicano quelli che dovrebbero essere, a loro avviso, i quattro “pilastri” della lotta alla povertà educativa, cui però ne aggiungono alla fine un quinto, altrettanto importante:

– un forte innalzamento dell’aliquota di bambini che fruiscono dei nidi pubblici per la prima infanzia (oggi l’Italia è ferma al 26,9%, con una rilevante presenza di nidi privati) e del tempo pieno nella scuola dell’infanzia e primaria;

– obbligo scolastico fino a 18 anni e solo nelle scuole secondarie di secondo grado;

– un servizio di orientamento nazionale “organizzato su basi professionali ed erogato da esperti indipendenti con l’obiettivo di guidare gli studenti nel passaggio dalla scuola secondaria di primo a quella di secondo grado” (p. 199);

– alleggerimento delle “differenze sociali di status tra gli indirizzi liceali da un lato e quelli tecnico professionali dall’altro” attraverso una riforma dei curricula che preveda un tronco comune “obbligatorio e identico per tutti gli studenti” al mattino, e “un tronco di indirizzi specialistici che rispecchi più o meno l’attuale ripartizione tra i licei, gli indirizzi di istruzione tecnica e quelli di istruzione professionale, da realizzare in classi ricostituite nelle prime ore pomeridiane di un orario scolastico leggermente allungato rispetto a quello attuale” (p. 200);

– (quinto “pilastro”): una estesa rete per l’educazione degli adulti, il cui basso livello di alfabetizzazione funzionale costituisce “un potente vettore di trasmissione della povertà culturale”, cominciando dal rafforzamento dei CPIA.

Una proposta, come si nota, che echeggia il modello unitario onnicomprensivo di cui si parlò in Italia negli anni Settanta dello scorso secolo ma che – ora come allora – sembra appartenere più alla sfera delle generose utopie progettuali che a quella dei programmi di riforma realizzabili. Interessante, comunque, l’accenno che viene fatto (p. 201) ai “percorsi formativi personalizzati” che il modello proposto agevolerebbe (di maggiore personalizzazione dei curricula si parla molto nel dibattito internazionale, ne parla anche l’attuale ministro Valditara), ma che il proposto enorme “tronco comune identico per tutti gli studenti” fino a 18 anni renderebbe insostenibile per gli studenti.

Perché non lavorare invece sull’ipotesi, studiata negli USA e altrove (vale anche per Valditara), di un tronco comune più ristretto, integrato dalla prima media al secondo anno di scuola secondaria superiore con attività facoltative e opzionali e completato da un biennio finale intensivo ma centrato solo su 2-3 materie, scelte dallo studente, da portare all’esame di maturità, o meglio alla certificazione delle competenze acquisite?

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