
Qual è il docente migliore? La riflessione di un insegnante

Di Daniele Trucco
Quella dei docenti di stato è una categoria che sfugge a una univoca classificazione. In realtà sono operai qualificati che a livello retributivo potranno solo ambire a scatti di anzianità ma non a progressioni di livello. Non esiste un insegnante più insegnante di un altro: quello che si può fare in più in ambito lavorativo diventa un extra ma non concorre a un avanzamento di carriera, tanto che al termine dell’anno scolastico, portato a termine un progetto, si ritorna da capo. Se il grande salto uno lo vuole proprio fare deve tentare il concorso da dirigente ma, superatolo, non sarà più insegnante. Nemmeno il fiduciario, conosciuto dai più come vicepreside, gode di autonomia contrattuale: è un docente come tutti gli altri e dunque, pur potendo firmare documenti talvolta delicati in assenza del suo capo e dovendo decidere spesso su cose mica da ridere, non vedrà riconosciuto il suo ruolo ai fini pensionistici. Da anni si vocifera sull’idea del ministero di creare una categoria apposita per i vice, ma appunto sono solo voci.
Se da un lato questa uguaglianza di ruolo può rappresentare un grande punto di forza della nostra organizzazione (chi scrive è un insegnante della scuola secondaria di primo grado), un elemento di equilibrio che fa sentire tutti ‘sulla stessa barca’, visto dal di fuori tende a non essere compreso più di tanto e a diventare oggetto di ulteriore critica da aggiungersi al già nutrito elenco di dicerie malevole rivolte d’ufficio contro il corpo docente. Soprattutto se si è genitori capita di sicuro di interrogarsi sul perché alcuni professori dei propri figli ricoprano quel ruolo nonostante una evidente incompetenza nella loro materia, una totale assenza di empatia con i ragazzi o peggio ancora manifestando comportamenti al limite dello squilibrio mentale.
Cercherò di fare un po’ di luce su alcuni aspetti.
Qualche anno fa il Ministero dell’Istruzione, forse per far passare il messaggio che anche nella scuola vigono la meritocrazia e i premi di produzione, tentò la strada del bonus da attribuire ai docenti migliori con la legge 107 del 2015: la cosa suscitò accese diatribe e divise l’Italia dei social in insegnanti da un lato (che non si vogliono far giudicare) e resto del mondo (che non capisce come le persone che si dedicano all’educazione delle nuove leve non siano mai state giudicate da nessuno).
La faccenda è spinosa e, come si vedrà, non del tutto risolvibile.
L’insegnante, come si è accennato, non ha mai avuto di fronte a sé la prospettiva di un avanzamento di carriera ma solo di anzianità e il bonus è stato un primo passo verso una gerarchizzazione. Il non averlo mai introdotto (non ci pensò neanche Gentile che di gerarchie se ne intendeva), anche se può sembrare strano, ha difeso fino a oggi la scuola dall’involuzione nella mediocrità che è tipica di qualunque organizzazione, sia privata sia pubblica.
Applicando infatti un principio teorizzato da Laurence J. Peter nel 1969 che prevede che in un sistema gerarchico ogni dipendente riesca a salire di grado fino al proprio livello di incompetenza, avremmo oggi una scuola tendenzialmente peggiore di quella attuale. Il ragionamento, anche se paradossale, non fa una piega: nel momento stesso in cui si ottiene una promozione lavorativa non solo si dorme un po’ sugli allori ma si va a fare qualche cosa che non si è ancora in grado di fare e si abbandona un compito che si sapeva svolgere ormai al meglio.
Il fatto che un docente non possa essere promosso dunque dovrebbe essere un bene: allora perché attribuirgli un bonus? E poi un docente ‘promosso’ che cosa dovrà fare di diverso rispetto a un suo collega di livello inferiore? Probabilmente, non trattandosi ancora di un vero passaggio di livello, l’ideatore del premio avrà pensato che avrebbe contribuito se non altro alla sua autostima, ma anche in questo caso ha commesso un errore: un premio di produzione lo si può assegnare solo in ambiti di quantificabilità lavorativa, non inducendo comunque all’autostima ma tendendo al contrario a generare malessere all’interno del gruppo.
La forza di un buon insegnante sta esclusivamente nel suo modo di insegnare: questo è dato dalla somma di fattori molto variabili quali la cultura personale, la padronanza della propria materia, la pronuncia corretta e comprensibile, la cadenza nella scansione delle frasi, il rigore nell’applicazione di un criterio valutativo condiviso. Si può notare che nessuno di questi punti sia parametrizzabile da un esterno: non producendo bulloni non è quantificabile l’operato di un docente, ad esempio, dai risultati scolastici o dal successo ottenuto nella vita dai suoi discenti. Il materiale umano cambia, non è materia inorganica e pertanto anche un bravo insegnante potrà trovarsi in cattive acque con la classe sbagliata. E se la sua valutazione fosse fatta proprio in quel contesto?
Altro problema: quasi duemila anni fa il poeta romano Giovenale si pose in una sua satira la famosissima domanda “chi sorveglierà gli stessi sorveglianti?”; il quesito è facilmente modificabile a nostro uso in “chi valuterà i valutatori?”. Il circolo è obbligatoriamente vizioso poiché in un mondo non oggettivo come quello della docenza solo un insegnante può valutare un suo pari e lo farà, inutile dirlo, da insegnante.
Come fare allora a valutare e a ottenere l’eccellenza? La soluzione c’è ma per ovvie ragioni non potrà mai essere attuata: in quanto destinatari diretti di una prestazione lavorativa devono essere gli alunni (un po’ come si faceva nelle universitates medievali) e non lo stato a pagare i loro insegnanti. Se chiamo un idraulico sarò incentivato a pagarlo di più solo se lo considererò il migliore sulla piazza; non parliamo poi di un dentista o di un chirurgo estetico. In questo modo chi insegna sarà spronato a fare meglio, ad aggiornarsi, a pubblicare articoli o semplicemente a migliorare il suo italiano. Però siamo in Italia e, contrariamente a tutto il resto del mondo, se un alunno paga per andare a scuola pretende (e lo pretendono soprattutto i suoi genitori) di essere promosso con il minor sforzo possibile. Altrimenti perché pagare? Ecco un altro circolo vizioso che rende difficile arrivare a una soluzione che non conduca alla mediocrità: un insegnante bravo in questo contesto non potrà che essere il più buono e permissivo.
C’è ancora uno spiraglio: nel criterio di aggiudicazione del merito non rientra solo l’insegnamento ma anche il sommerso mondo dietro le quinte dei professori costituito dagli aggiornamenti e dalle riunioni. Ecco finalmente qualche cosa di quantificabile. Prendiamo come esempio le riunioni: per la stragrande maggioranza del corpo docente il parteciparvi genera gli stessi sentimenti che in un autotrasportatore nascono quando affronta una coda in tangenziale. Il perché è facilmente intuibile: si è soliti osservare che l’andamento di una riunione sia scandito dalla mente più lenta tra i suoi partecipanti. Lo si nota in qualunque dipartimento, in tutte le commissioni, in ogni gruppo il cui scopo sia decidere: quando il numero dei partecipanti è maggiore o uguale a due il tempo perso in inezie e futili dettagli supera di gran lunga quello della produttività. Quindi: perché continuare a fare riunioni? E ancora: la qualità di un insegnante è direttamente proporzionale al numero di riunioni e corsi di aggiornamento a cui partecipa o all’apporto innovativo delle sue idee all’interno dell’istituto? Di certo il primo caso, in quanto unico oggettivamente verificabile da un valutatore. Il merito deriverebbe quindi dal perdere più tempo possibile nel maggior numero di riunioni possibili?
Non ci rimane che confidare nei dirigenti scolastici: di certo non permetterebbero mai che un docente assenteista, incapace o non adatto al suo ruolo entri in classe e senz’altro, con il maggior potere decisionale affidato loro dalla ‘buona scuola’ potranno scremare tutti quelli che, anche se dai loro curricula risultano nati e laureati in Italia, dimostrano già dal primo colloquio di non riuscire a parlare in una lingua italiana riconosciuta dalle grammatiche.
Almeno questo.
Errore: il dirigente scolastico, contrariamente al capo di un’industria, non può scegliere il suo personale, né in campo didattico né amministrativo. Del resto lo dice la parola, se è un dirigente deve dirigere e non scegliere. Si lavora con chi c’è e se l’italiano dei suoi dipendenti non sarà proprio comprensibile, pazienza; e se al posto di insegnare le proiezioni ortogonali opteranno per la visione di tanti bei documentari sulla storia delle locomotive, pazienza; e se decideranno di essere ligi fino in fondo e di applicare tutte le agréments concesse dalla legge, assentandosi tutti i fine settimana buttando sul piatto un permesso per motivi di famiglia, pazienza: li si sostituirà con il sorriso sulle labbra durante tutto l’anno perché comunque avranno lavorato nel pieno rispetto dei loro diritti e soprattutto perché ben protetti dai sindacati.
Ironie e paradossi a parte, arrivati a questo punto è necessario tirare le somme. Una freddura dedicata all’universo femminile recita che la donna, quando cerca il suo uomo, non sceglie il migliore ma il meno ripugnante. Cercare il meglio talvolta sconfina con il puntare al meno peggio ed ecco perché avere come obiettivo l’eccellenza implica tante volte accontentarsi della mediocrità; succede un po’ dappertutto e la scuola non è certo diversa dal resto del mondo quando vi si applicano le stesse regole.
La ricerca del docente perfetto non esiste e non potrà esistere mai: sono le persone a fare la differenza e gli unici che se ne possono accorgere sono gli utenti del servizio. Il grado di soddisfazione è il risultato di sensazioni, malesseri, benesseri e critiche costruttive e solo il tempo potrà dare ragione dei risultati di un insegnamento.
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