Pubblici dipendenti: due linee per i rinnovi contrattuali

Aumentare i salari lordi o diminuire l’imposizione fiscale, in modo da aumentare il salario netto spendibile? Sulla prima posizione si attestano i sindacati confederali CGIL, CISL e UIL, che dopo lo sciopero generale dei pubblici dipendenti dello scorso 21 maggio hanno ribadito la loro richiesta di un aumento dell’8%, contro il 3.6% programmato dal Governo.
Una nota della CGIL scuola cita i dati di una recente ricerca Eurispes, che ha quantificato la perdita del potere d’acquisto delle retribuzioni dei lavoratori dipendenti (pubblici e privati) nel 19.7% dal momento dell’adozione dell’euro (1° gennaio 2002). Dato contestato dal ministro Mazzella, che il 27 maggio scorso ha dichiarato in Parlamento che “le retribuzioni di fatto nel periodo contrattuale 2002-2003 risultano cresciute più dell’inflazione reale”. Ma probabilmente il ministro si è basato sui dati ISTAT, che ha indicato nel 6.7% il tasso d’inflazione nello stesso biennio: un dato molto più basso di quello calcolato dall’Eurispes.
A prescindere dai dati statistici, che negli ultimi anni sembrano essere diventati materia opinabile, si prospetta uno scontro tra la linea dei sindacati confederali, che porterebbe all’aumento della spesa pubblica, e quella del ministro Tremonti, fortemente sostenuta dal presidente Berlusconi, che tale spesa vorrebbe diminuire, al fine di finanziare la riduzione delle aliquote di imposizione fiscale. In questo secondo caso – tutto da verificare – occorrerebbe tener conto, in sede di rinnovo dei contratti della scuola e di tutti gli altri comparti del pubblico impiego, della consistenza di tale riduzione, il cui effetto pratico sarebbe equivalente a quello di un aumento del salario. Se passasse questa linea perfino l’aumento programmato del 3.6% potrebbe essere rimesso in discussione. Ma nel senso di diminuirlo…