Proteggiamo la cittadinanza che costruiamo giorno per giorno nelle nostre classi

Noi insegnanti ci troviamo di fronte a una contraddizione che mina alla radice il nostro fare scuola. Le “Indicazioni nazionali per il curricolo”, che sono legge dello stato dal novembre 2012, parlano di educazione alla cittadinanza e nominano persino la cittadinanza attiva. Da oltre dieci anni nelle scuole si discute e ci si forma per cercare di costruire competenze di cittadinanza, cioè capacità di rendere vive e fattive le conoscenze acquisite. A fronte di questo impegno, che siamo chiamati da una legge ad assolvere in modo prescrittivo, in Italia vige un’altra legge che rende piena di ostacoli e spesso interdetta la strada per acquisire il diritto di cittadinanza da parte di molti nostri allievi.

Ora, di fronte a due leggi dello stato che si contraddicono, io credo che abbiamo il dovere di scegliere. Di più. Credo che dobbiamo cercare i modi più cristallini ed efficaci di rendere pubblica la nostra scelta e chiedere che sia rimossa una legge che nega il fine e la sostanza più profonda di ciò che siamo chiamati ad insegnare.

Cos’è educare, infatti, se non cercare di “rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale, che, limitando di fatto la libertà e l’eguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana”, come recita l’articolo 3 della nostra Costituzione? C’è una questione di uguaglianza di doveri e di diritti in ballo, che ritengo non si possa eludere. Per questo mi batto per lo Ius soli temperato e lo Ius culturae, una legge approvata esattamente due anni fa dalla Camera dei deputati e che va sostenuta con forza perché non resti bloccata al Senato. Per questo insieme al Movimento di Cooperazione Educativa, al CIDI, ai CEMEA e a molte scuole per stranieri abbiamo redatto un Appello degli insegnanti per la cittadinanza di cui continuiamo a sollecitare adesioni, che in tre settimane ha raccolto oltre 6000 firme e ha portato 900 insegnanti ad attuare uno sciopero della fame simbolico il 3 ottobre scorso.

E’ importante che questa mobilitazione sia partita proprio dalla scuola perché siamo noi insegnanti che abbiamo tutti i giorni davanti ai nostri occhi gli 815.000 ragazzi che rischiano di essere confinati in uno stato di non cittadinanza che nuoce non solo alle loro vite, ma all’idea stessa di convivenza che riteniamo necessario contribuire a costruire nelle nostre città. La scuola in Italia è certamente il luogo pubblico dove maggiore è stata l’accoglienza delle famiglie immigrate. Pur tra luci e ombre, infatti, nelle nostre classi c’è stata una notevole integrazione tra figli di immigrati e di nativi. Ed è importante ricordare il grande lavoro costante e prezioso di tante maestre e maestri elementari che, giorno dopo giorno, hanno cercato di costruito piccole comunità capaci di dare dignità al pensiero di ciascuno.

Va anche detto che, al di là di alcuni documenti del MIUR di grande interesse riguardo all’intercultura, questo lavoro capillare è stato in larga parte frutto di iniziative nate nelle scuole dal basso, sulla spinta di una forte motivazione e persuasione delle e degli insegnanti più sensibili e attenti. Non credo tuttavia che questa attenzione alle tante diversità presenti nelle nostre classi sia dovuta a una maggiore qualità etica di noi insegnanti, quanto ad elementi concreti che configurano il carattere del nostro mestiere. Per cercare di insegnare bene italiano, matematica, storia, arte e nel costruire le basi per cercare di capire il mondo, noi sappiamo quanto sia necessario creare un clima di ascolto reciproco che permetta a gruppi classe sempre più eterogenei di esplorare i territori del sapere intrecciando questa esplorazione culturale con una sempre più profonda conoscenza reciproca.

Quella conoscenza degli altri e di se stessi che permette a tutti di sentirsi “di casa”. La parola reciproco è particolarmente significativa. Nomina il recus e il procus, cioè l’andare nell’incontro con l’altro prima indietro e poi avanti. Senza fare un passo indietro noi insegnanti, senza fare un po’ di silenzio per metterci davvero in ascolto dei tanti modi in cui si esprimono bambine e bambini, è impossibile costruire quel contesto di attenzione reciproca così fecondo per ogni apprendimento. Questa è la piccola cittadinanza che ogni giorno proviamo a far crescere vivendo bene insieme, a cui deve corrispondere la prospettiva di una grande cittadinanza, a cui è nostro compito batterci perché vi accedano tutti, proprio per l’esperienza che hanno vissuto a scuola, come vuole il cosiddetto Ius culturae.

Ecco perché trovo intollerabile l’idea di fare scuola a bambini non cittadini. “L’immigrato sospetta la realtà”, scrisse anni fa Salman Rushdie, che aveva cognizione profonda della questione. Quel sospetto ha una doppia valenza. Può prendere la strada della diffidenza e arrivare fino alla paranoia del vedere nemici e complotti dappertutto, o può aprire a una visione critica delle cose e sospettare, ad esempio, che dietro alle indubbie distanze di lingua, visioni del mondo, atteggiamenti e comportamenti, ci sia qualcosa di più profondo che ci accomuna, ci sia quell’elementarmente umano di cui parlava l’antropologo Ernesto De Martino, che permette l’incontro, il dialogo e talvolta anche contraddizioni tra diverse posizioni che possono arricchirci tutti. In fondo cosa fanno gli scienziati se non sospettare continuamente la realtà per cercarvi ciò che nasconde? Cosa fanno gli artisti, i matematici, i letterati? La fatica è grande, certo, ma forse un gruppo umano riunito insieme per apprendere e dunque confrontarsi con il non sapere, è nelle condizioni migliori per sospendere il giudizio ed accogliere con serenità la propria ignoranza. Io non so e non capisco di matematica come non so e non capisco perché tu ti comporti e pensi in modo diverso dal mio…

Non so di storia e non so quali immagini produca la tua lingua materna, diversa dalla mia, nei tuoi pensieri e nei tuoi sogni. Se tutti – io che insegno per primo – abbiamo il coraggio di confrontarci col nostro non sapere e con l’ignoto che circonda tanta parte della nostra vita, senza fare finta di non vederlo, siamo potenzialmente nella condizione migliore per aprirci all’altro. Il suo punto di vista, infatti, che è differente dal mio, gli permette di confrontarsi con un testo, un teorema, una musica o un paesaggio in modo diverso da me, aiutandomi a scoprire che la cultura è relazione, intreccio di relazioni, o non è. Questa la grande sfida culturale di lungo periodo che abbiamo davanti, di fronte alla quale non credo ci si possa voltare dall’altra parte.

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