Più istruzione per tutti (parola di Luigi Berlinguer)

Riuscire a portare gli adulti a scuola, convincere le aziende ad investire nella formazione, puntare sull’autonomia scolastica (ma non nei programmi). Le sfide per il sistema scolastico italiano, secondo un ex ministro.

ROMA – Lugi Berlinguer è stato ministro della Pubblica Istruzione durante i governi del centrosinistra, ma prima di questa esperienza è stato rettore dell’Università di Siena (dove ha insegnato Storia del diritto italiano), per quasi dieci anni, dal 1985 al 1994. Sempre fino al 1994 ha ricoperto la carica di segretario generale della conferenza dei rettori delle Università italiane. Queste caratteristiche ne fanno uno dei più attenti conoscitori del sistema scolastico italiano.
Onorevole, quali sono oggi le sfide che la scuola italiana deve affrontare?
Le sfide sono tante. In primo luogo c’è quella di interpretare ed assecondare la domanda della società, che oggi è diversa dal passato. Mi spiego meglio: prima c’era bisogno di una forte elite preparata professionalmente, mentre i profili professionali di massa erano modesti, e la maggior parte delle persone avevano fatto solo le elementari. Poi tutti hanno iniziato a concludere le medie, ma a laurearsi erano comunque in pochi. Adesso la situazione deve cambiare ulteriormente, perché se ci fossero solo persone con la licenza media la società non camminerebbe.
Se ci fossero solo persone laureate lo farebbe?
No, forse non camminerebbe ugualmente. Ma ora assistiamo ad una forte necessità della nostra società: tutti coloro che lavorano dovrebbero avere una preparazione che corrisponde al nostro diploma di secondaria. Tutti, perché anche nei mestieri più manuali si affaccia la necessità di una innovazione, di un aggiornamento professionale. I mestieri cambiano e chi non ha una preparazione più ampia viene emarginato, e diventa un assistito e non più un produttivo.
I bisogni principali oggi sono due: uno produttivo professionale e uno culturale. Due bisogni che stanno creando le condizioni, nei paesi più evoluti, di una scolarizzazione pressoché totale fino ai diciotto anni. Lo dicono le cifre: nei Paesi più evoluti del nostro questa cifra arriva quasi al cento per cento, l’Italia sta sfiorando l’ottanta. E se non siamo arrivati al cento è perché la scuola non ha favorito questa operazione, perché continua a conservare fino a diciotto anni la differenza fra istruzione e formazione professionale.
Un paradosso, la scuola non avrebbe favorito la scolarizzazione?
La scuola conserva questa distinzione tra istruzione e formazione professionale. Insomma, è indispensabile che anche la parte più residua della formazione prima dei diciotto anni sia fatta nell’ambito della formazione culturale e non invece in modo così nettamente professionalizzante come avviene oggi, tralasciando la cultura.
La prima sfida della scuola italiana è sostenere questa domanda di istruzione e formazione insieme, che è rafforzata e avvalorata da un’altra circostanza: prima si finiva la scuola secondaria a diciotto anni, la laurea a ventidue e poi non si studiava più. Ognuno si faceva le sue letture, ognuno lavorando imparava qualcosa, ma l’istruzione finiva nell’età giovanile. Nei paesi più evoluti invece lo studio in tutto l’arco della vita è divenuto la norma.
In Italia non si può dire altrettanto…
Esatto. Anche un buon laureato se non continua a studiare dimentica tutto, diventa una capra. Figuriamoci un diplomato o uno che ha soltanto la scuola media. Insomma, la life long learning, lo studio durante tutto l’arco della vita, è una necessità fisiologica di quella società in cui i saperi cambiano molto più rapidamente di prima. Mi spiego: a un meccanico arrivano automobili che hanno una componente elettronica così elevata che lui ha difficoltà ad aggiustarle. Allora che fa? La manda in tilt? No, deve imparare altre cose, deve aggiornarsi.
Che cosa potrebbe spingere un meccanico a tornare a scuola?
La Svezia è riuscita a far prendere il diploma a tutti, non solo ai giovani, ma anche a chi aveva quaranta o cinquanta anni, perché ha fatto corsi appositamente per queste fasce di popolazione. E poi ci sono altri interventi da fare, anche a livello sindacale, per cui se uno sta facendo questi studi bisogna esonerarlo dal lavoro e via su questa strada. Questa roba costa, però è l’unico modo di spingere la società. Oppure si potrebbero fare corsi più brevi nei quali si utilizza quello che si è già imparato lavorando.
Come già accade nei progetti di “laureare l’esperienza”?
Esatto. Bisogna articolare la life long learning nelle sue mille facce. Una cosa è aggiornare un perito chimico e dargli una laurea e una cosa è aggiornare chi lavora in fabbrica. Ma in ogni caso gli aggiornamenti in servizio dovrebbero esserci quattro, cinque volte nella vita. E per questo le strutture pubbliche non bastano: devono stimolare, devono coordinare, ma anche favorire le iniziative che vengono dalla società.
Mettiamo da parte il meccanico, che è un lavoratore, e facciamo l’esempio di una casalinga, al di fuori del mercato del lavoro e quindi senza apparente necessità di aggiornarsi. Come si potrebbe spingerla a tornare sui banchi?
Beh, innanzitutto non è necessario che si prenda un titolo di cinque anni, ma potrebbe prenderne uno triennale, oppure senza prendere alcun titolo potrebbe imparare delle cose secondo una metodologia didattica e contenuti culturali diversi. Insomma, non è necessario che la casalinga studi il greco, però può fare esperimenti di fisica e chimica, studiare la letteratura. Cultura significa anche insegnare a lei, che non ha mai conosciuto la pittura, come si guarda un quadro. Bisogna che la cultura sia considerata un consumo di tutti, non solo di una elite.
Ci sarebbe anche un problema di copertura economica…
Ovviamente, ma il primo ragionamento è che senza cultura è difficile fare una società moderna. Si facciano delle priorità e si spenda di meno in altri campi. Seconda cosa: non tutto deve essere statalizzato, e fatto con gli insegnanti della scuola.
Cosa intende dire?
Secondo me la società è in grado di dare molte risorse. Se le aziende non investono in formazione se ne vadano, perché non riescono ad essere competitive, non stanno sul mercato. Devono considerarlo uno dei costi. Costa la materia prima? Costa pagare le assicurazioni sociali agli operai? Deve costare anche la formazione. Poi i soldi si prendono dalle regioni, dai progetti internazionali e dagli stessi interessati.
Insomma, se si vuole i soldi si trovano?
Si devono e si possono trovare.
Le sfide sono già finite?
No, ce n’è ancora una: come si conciliano la qualità e la quantità. E per spiegarlo chiedo: perché ho fatto l’autonomia scolastica, sapendo che una grossa fetta dei docenti non la voleva? Risposta: prima di tutto perché oggi la società è la società delle autonomie, non è la società dello statalismo centralizzato. I corpi sociali si organizzano e vogliono esprimere essi stessi un ruolo, non essere sotto la cappa dello Stato. Questo non vuol dire privatizzare. E poi queste autonomie sono autonomie istituzionali:comuni e regioni vogliono contare di più anche nella politica formativa. Poi ci sono le autonomie sociali, non solo quelle istituzionali, per cui non solo le aziende ma anche altre istituzioni sociali esprimono un bisogno di partecipazione nel campo della formazione e istruzione.
L’altro profilo, che si sposa col primo, è che i modelli formativi non sono più uno soltanto, cultura non è solo non fare errori di ortografia, ma anche studiare la tecnologia del mondo di oggi. E questa è una cultura che non può essere tutta statalizzata, con un programma deciso dall’alto.
Allora l’autonomia significa che anche i contenuti formativi, anche i programmi, devono innanzitutto avere una base comune, assolutamente, per cui chi non studia la matematica è bene che si ritiri, ma poi la cultura è altre mille cose, e la scuola si deve diversificare al suo interno.
In che modo?
Basta fare una parte del curriculum scolastico uguale per tutti, e una parte mobile che si articola in sub comunità scolastiche. Insomma, per conciliare qualità e quantità e per incoraggiare la quantità a fare una cosa che altrimenti non gli andrebbe bene perché estranea, ci vuole autonomia, che vuol dire che i percorsi formativi dei ragazzi dovrebbero essere differenziati e incoraggiati attraverso le vocazioni e le attitudini, strutturando l’insegnamento in modo tale da modellarlo sui bisogni di apprendimento dei singoli.
Per quanto riguarda l’autonomia, la riforma Moratti parla di ore gestite dalle regioni. Che cosa ne pensa?
Sono contrario: le ore devono essere gestite dalle scuole. Le istituzioni, (Comune, Provincia e Regione), possono essere coinvolte nell’indirizzo, nel senso che danno delle idee, descrivono delle esigenze, ma non possono essere prescrittive. Queste strutture dovrebbero però gestire le scuole, mentre ora le gestisce lo Stato.
Che cosa ne pensa della riduzione delle ore di insegnamento e del tempo pieno alle elementari?
Non ha senso. La scolarizzazione deve essere fino al primo pomeriggio, perché c’è una gran parte di ragazzi i cui genitori lavorano entrambi, non si può far diversamente.
Secondo lei si fa abbastanza per insegnare la lingua straniera in Italia?
Prima non si faceva nulla. Noi abbiamo introdotto questo progetto lingua, sperimentale e in progress, che però poi è stato sterilizzato con la diminuzione dei fondi e dal fatto che si rivoleva fare tutto da capo. Le mie riforme avevano bisogno di altri cicli di attuazione e di correzione degli errori e invece è intervenuta una idea che io chiamo dammnatio memoriae: definire l’era precedente, in questo caso quella in cui io ero ministro, come l’era della malvagità. Hanno detto: abroghiamo tutto il passato e in particolare la memoria.
Passiamo all’Università: professore straordinario, cattedre promosse dalle aziende, cosa ne pensa?
L’idea di cattedre convenzionate esisteva da molto tempo e consisteva nel fatto che si introducevano nel budget i soldi per una cattedra pagati da un ente esterno, prevalentemente un’azienda, ma il reclutamento, il concorso e la sistemazione venivano fatti dalle università. Poi questa cosa è stata superata perché non aveva dato molti risultati e poi perché in Italia le aziende non danno i soldi volentieri, se non in alcune materie scientifiche. Questo che è stato fatto adesso è come tutti gli altri provvedimenti: ad personam. Hanno fatto tutti questi provvedimenti pensando a sistemare qualcuno.
E dove sarebbe in questo caso il provvedimento ad personam?
Ho questo sospetto ma non ne ho la prova. Ad esempio hanno fatto un Istituto superiore a Lucca, e ne hanno fatto uno a Genova. Il secondo lo fece Tremonti perché doveva sistemare un paio di persone, questo di Lucca lo ha fatto la Moratti perché glielo ha chiesto Pera, che deve sistemare delle cose. A Pisa c’è una grande università, dista da Lucca un quarto d’ora di treno o venti minuti di macchina, ci sono dei corsi decentrati di Pisa. A Lucca ora fanno un’altra università distinta, che costerà un domani l’ira di dio, che è campata in aria, che non ha strutture scientifiche consolidate come i tre-quattrocento anni di quelle pisane. È una follia, è stata fatta perché Pera l’ha richiesto.
Torniamo al liceo. Con l’esame di maturità con tutti i professori interni in molti lamentano mancanza di trasparenza per le scuole parificate…
L’esame con tutti i professori interni è una bestemmia. Io ho riformato l’esame di Stato perché prima era una burletta. Si facevano solo due materie estratte a sorte all’inizio dell’anno, gli studenti sapevano che dovevano preparare solo quelle due e tutto il programma delle altre materie non lo facevano perché non veniva richiesto all’esame. Era una burletta. Io ho inserito tutte le materie. Secondo: ho conservato la presenza dei professori esterni che c’era prima che arrivassi io non solo per quelle private ma anche per quelle pubbliche. È giusto che ci sia un controllo esterno alla fine della scuola, al termine del cursus honorum scolastico.
Qualora il centrosinistra vincesse le elezioni, come si comporterebbe il Governo? Abolendo la riforma Morati?
Questo è quello che ha fatto la Moratti. Non si può abrogare la riforma in toto. Si devono sospendere alcune cose che possono fare danno, per esempio la riforma della scuola secondaria superiore, perché ha ucciso gli istituti tecnici, e poi ne ha spostato una parte nei licei e una parte alle regioni, e questo significherà un disastro, perché le regioni devono gestire tutto, ma non i contenuti programmatici. Le regioni devono sì gestire tutto, anche i licei, ma nel senso che devono gestire il personale, i trasferimenti, non i programmi. Non sono d’accordo che una parte delle scuole sia gestita dalle regioni e una parte dallo Stato. La revisione non deve essere verticale, fra un comparto e l’altro, ma orizzontale, fra competenze.