Tuttoscuola: Il Cantiere della didattica

Perché studiare il latino

Dario Antiseri interviene nel dibattito avviato da Bernardini - De Mauro sul confronto tra cultura scientifica e umanistica

di Dario Antiseri

Accantonato come «un alieno, un cafone» per avere francamente preso di mira tanti ‘cialtroni’ e ‘chiacchieroni’ la cui indefessa opera genera solo irrazionalismo, Carlo Bernardini dichiara, nella sua lettera a De Mauro (in Contare e raccontare. Dialogo sulle due culture, Laterza, Roma-Bari, 2003) di non voler affatto nessun conflitto tra le due culture, standogli a cuore solo che «quei testoni dei letterati e dei filosofi smettano di parlare come funzionari di una ‘cultura dominante’ e, riconoscendo che noi scienziati siamo perfino in grado di vedere i nostri limiti, ci diano almeno ‘l’onore delle armi’» – e precisa che «il pensiero scientifico dipende fortemente da condizioni di contorno che attenuano la dominanza del pensiero irrazionale». Da qui la sua difesa della precisione semantica, del rigore logico e dell’aderenza (certo, non dimostrata come assoluta) delle teorie scientifiche ai fatti: e da qui il suo motivato disprezzo per l’incomprensibilità deliberata vista come «una perversione, una forma di ostilità gratuita verso i propri simili».

D’accordo su tutto ciò, si può essere pienamente d’accordo con Bernardini anche su parecchi altri punti, per esempio sulla sua riflessione relativa alla ‘manualistica scolastica’; sul fatto che l «’astratto’ non è affatto sinonimo di non-reale»; sull’idea che «insegnare è uno dei mestieri più difficili del mondo» («richiede umiltà e autorevolezza: due qualità spesso incompatibili nei caratteri individuali»). Mi permetterei, comunque, di rivolgere a Bernardini delle domande sulla prescrittività o meno del metodo scientifico o su che cosa egli esattamente intenda per metodo induttivo. Certo, Bernardini ha ben ragione di lamentarsi del fatto che molti storici della scienza non sono mai stati scienziati, per cui «il potere evocativo della storia corrente della fisica o della matematica è prossimo a zero». Ma gli chiedo: come mai non ci sono dei fisici i quali avvertano come urgente il compito che, come Bernardini ci ricorda, Amaldi affidava a se stesso quando disse: «voglio scrivere questa storia prima che ci mettano le mani gli storici…»? Se ci sono storici della scienza che, per mancanza di competenza, si limitano «a curiosità…che sono superflue e fuori posto», ci sono in Italia anche stimatissimi e meritori storici del pensiero scientifico come Paolo Rossi. E poi: perché quando un Istituto di fisica ha avuto un fisico seriamente impegnato in indagini storiche riguardanti la fisica contemporanea, gli stessi fisici si sono ben guardati dal fargli fare carriera e di avere così allievi? Sto parlando, per essere chiaro, di Salvo D’Agostino le cui ricerche sono ben conosciute, soprattutto fuori dal nostro Paese.

Non c’è qui spazio per rendere conto di due storie, quella di ‘Calandro’ e quella di ‘Erasto B. Mpemba’, da cui Bernardini estrae una interessante ‘morale pedagogica’. Restando, però, sempre nell’orizzonte della formazione, mi sta a cuore puntare l’attenzione sulla mai sopita questione dell’insegnamento del latino. «Nessuno o quasi invoca più il mito del latino lingua logica, e ciò è bene, ma ben pochi sanno insegnare e pochi imparano davvero il latino e ciò, a mio avviso, non è bene, anzi è proprio male». Questo risponde Tullio De Mauro a Carlo Bernardini, per il quale non si sa a che mai serva il latino. Dunque: serve ancora studiare il latino? Ebbene, la risposta di De Mauro è un chiaro sì. Anzitutto «serve come l’acquisire una buona pratica di una qualunque lingua diversa dalla nostra. L’effetto di spaesamento linguistico, lo sappiamo, è salutare al fine di migliorare il controllo del nostro stesso intendere». Ma vi è di più: «una lingua è fatta per mettere in contatto le generazioni» – e qui sta la ragione per cui «i giapponesi e cinesi d’oggi studiano nelle scuole il cinese classico, gli indiani il sanscrito, i persiani e gli arabi l’arabo classico; e questa è anche la ragione per cui da un capo all’altro dell’Europa e del mondo linguisticamente europeizzato si è studiato e si studia il latino». Ed ecco la conclusione di De Mauro: «Il latino è parte profonda e viva della nostra storia […] Solo chi crede di potere tagliare le proprie radici e tuttavia sopravvivere può immaginare che la nostra società, la nostra comunità nazionale possa rinunciare alla linfa che viene al nostro parlare e pensare da un rapporto profondo non ristretto a pochi eruditi con l’eredità latina. Serve ancora il latino? Sì, a chi vuole essere contemporaneamente europeo e italiano».

In una società come la nostra che si avvia ad essere sempre più ‘aperta’, sempre più plurietnica e multiculturale, la consapevolezza delle nostre radici, la delineazione dei tratti di fondo della nostra identità è questione ineludibile, perentoriamente necessaria se si vuole davvero dialogare con culture e tradizioni ‘altre’ ed entrare magari in eventuali feconde contaminazioni con esse, all’interno di una civile convivenza e reciproco rispetto.

Dunque: pieno accordo con De Mauro sull’utilità e, direi, sulla necessità dello studio del latino. Da parte mia, direi: necessario l’inglese per la più ampia comunicazione, per ‘stare’ insieme agli altri; necessario il latino per sapere chi siamo e da dove veniamo. Ma qui vorrei aggiungere un’altra argomentazione a favore dello studio del latino (e del greco) – o un’argomentazione che va nella direzione di quella educazione alla razionalità su cui anche Carlo Bernardini giustamente, e appassionatamente, insiste. E’ di Popper – pur se non soltanto sua – l’idea che unico sia il metodo della ricerca scientifica. Dovunque si faccia ricerca – in fisica come in sociologia e storiografia, in biologia e in chimica come anche in filologia o nella traduzione di un testo – non si fa altro che risolvere problemi tramite la proposta di ipotesi o congetture da porre al vaglio delle loro conseguenze, nella consapevolezza che l’errore individuato ed eliminato è il debole segnale rosso che ci permette di venire fuori dalla caverna della nostra ignoranza. D’altra parte, seguendo l’insegnamento di Gadamer, sappiamo che l’interpretazione di un testo è una ipotesi su quello che il testo dice – sul messaggio o senso del testo; interpretazione che va controllata sul testo e sul contesto; e se qualche pezzo di testo o contesto urta contro la prima interpretazione, se ne deve proporre un’altra, in un lavoro possibile ed infinito. Ebbene, se Popper e Gadamer sono nel giusto, ne segue che scienziato è il fisico e scienziati sono il critico testuale e il traduttore. Anche il traduttore è un ricercatore che fa congetture sul significato di termini ed espressioni, sul senso di un testo, su quello che un testo dice. E sottopone a controllo rigoroso questi nuovi tentativi di traduzione – e quelli altrui. Tutti noi ricordiamo i momenti di ansia davanti a testi greci o latini da tradurre. E se il testo non aveva il titolo, le nostre preoccupazioni aumentavano. Poi magari arrivava, data la nostra precomprensione, il momento di grazia: ‘Ho capito!’. Che cosa avevo capito? Avevo capito di che cosa trattava il testo: una battaglia, un viaggio in mare, una favola con intenti morali, qualche episodio della vita di qualche illustre personaggio e così via. Fatta la congettura, si cercava di inserirvi tutti i ‘pezzi’ del testo: avverbi, aggettivi, espressioni idiomatiche, si forzavano le cose andando a pescare la quarta accezione del verbo, la quinta dell’aggettivo, si lasciava un buco qua e là; e se la versione non veniva fuori, si chiedeva al compagno di banco: ma di che cosa tratta? E si ricominciava a tradurre. Congetture e confutazioni: in questo consiste il lavoro del traduttore, il modo di procedere dell’ermeneuta. E se questo è vero, è vero anche che tanto spesso nei nostri licei scientifici l’unico lavoro di ricerca è consistito nella versione di latino, e nei nostri licei classici nella versione di greco e di latino.
Tradurre equivale a risolvere problemi, mentre tanto spesso l’insegnamento delle scienze (sovente ametodologico e astorico) è consistito nell’esecuzione di esercizi. Il problema è il primum movens della ricerca; l’esercizio va invece eseguito: chi fa un esercizio non deve, in linea generale, scatenare la fantasia, non deve discutere, non deve sbagliare – ha da applicare leggi e regole magari apprese a memoria senza motivazione alcuna. Ha certamente ragione Bernardini a denunciare l’irrazionalismo che ci circonda da ogni parte; ma viene da chiedergli se della corriva tolleranza verso l’irrazionale sia colpevole solo «una intrinseca debolezza del pensiero umanista»; se sia vero che il pensiero umanista «sia solo un pensiero che bada soltanto ad essere erudito ed elegante» e che ha «responsabilità enormi nella formazione dell’uomo contemporaneo». Penso che le colpe siano rinvenibili sia nel campo di fisici e biologi ‘cialtroni’ sia in quello di letterati ‘ retori’. Ma non va dimenticato che non sono i fisici ad insegnare il rigore scientifico ai filologi. E che sarebbe opportuno riflettere su quanto qualche anno fa affermò Noam Chomsky, e cioè che «si imparerà sempre di più sulla vita dell’uomo e sulla sua personalità dai romanzi che non dalla psicologia scientifica». La grande letteratura è prodotta con mezzi non scientifici. Chiedersi, ha scritto Nelson Goodman, se una persona è un Don Chisciotte o un Don Giovanni, è «una domanda vera e propria, quanto chiedersi se una persona è paranoica o schizofrenica, ed è anche piuttosto facile dare ad essa una risposta». L’esperienza artistica e quella scientifica – è ancora Goodman a parlare – hanno entrambe «un carattere fondamentalmente cognitivo».

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