Oltre la medaglia: la vera missione di chi insegna il movimento a scuola

Di  Luigi Russo

Immaginiamo un ingegnere di Formula 1, un mago dell’aerodinamica e della telemetria, a cui viene chiesto di insegnare a un gruppo di neopatentati come godersi una gita in campagna. L’esperto ha con sé computer e diagrammi di aderenza, ma di fronte ha ragazzi che ancora faticano a coordinare frizione e acceleratore. Questa metafora descrive perfettamente il paradosso che vive oggi il Dottore in Scienze Motorie quando entra in una scuola italiana.

I nostri istituti accolgono professionisti brillanti, la cui preparazione universitaria è impeccabile per forgiare atleti e ottimizzare la performance sportiva. Questi nuovi insegnanti possiedono un bagaglio di conoscenze scientifiche sofisticatissime sulla fisiologia e sulla biomeccanica del corpo umano. Eppure, il loro primo giorno in palestra si scontra con una realtà che nessuna formula può decifrare: un mosaico di adolescenti.

In questo gruppo eterogeneo c’è chi vive ogni partita come una finale di Champions League e chi spera di mimetizzarsi con gli attrezzi per evitare il movimento. C’è l’adolescente la cui coordinazione è ancora un mistero e chi vede l’attività fisica come una spiacevole interruzione del proprio riposo. Di fronte a questo scenario, a cosa servono le complesse teorie sull’allenamento di un campione? La risposta è disarmante: a poco o nulla.

La Tirannia del Cronometro e il Culto della Performance

La scuola non è un centro federale, né un’accademia per futuri campioni olimpici. È, e deve essere, un luogo di educazione. E l’errore più grande che un insegnante di scienze motorie possa commettere è trasformare la sua ora in una selezione dei più dotati.

Impostare una lezione basata ossessivamente sulla prestazione tecnica, sul tempo, sulla misura, è una via sicura verso il fallimento educativo. Questo approccio crea inevitabilmente una frattura. Da un lato, i pochi “bravi”, spesso già atleti in società sportive, che usano l’ora di ginnastica come palcoscenico per il proprio ego. Dall’altro, la stragrande maggioranza: ragazzi e ragazze normali, timidi, insicuri o semplicemente non avvezzi allo sport.

Per loro, la lezione diventa un’arena di inadeguatezza, un’ora di sottile umiliazione dove viene ribadita l’etichetta che si sentono cucita addosso: “non sono portato”, “l’attività fisica non fa per me”. Questa non è solo una brutta esperienza scolastica; è una sentenza che li condannerà a una vita sedentaria, costruendo un muro tra loro e il benessere fisico.

La Missione: Insegnare l’Alfabeto del Corpo

Il vero compito dell’insegnante è un altro: demolire questo muro. È trasformare la palestra da luogo di giudizio a spazio di scoperta. L’obiettivo primario non è insegnare un bagher perfetto, ma far assaporare la gioia di giocare con i compagni e tenere una palla in aria. Non è misurare una performance di corsa, ma insegnare a gestire il fiato, ad ascoltare il proprio corpo e a scoprire che è uno strumento meraviglioso.

Si tratta di riscoprire il linguaggio primordiale del corpo, quegli schemi motori di base che la vita moderna ha messo a tacere: correre, saltare, lanciare, arrampicarsi. Sono le lettere di un alfabeto fisico; senza di esse, nessuno potrà mai comporre la propria personale poesia del movimento.

La lezione deve diventare esplorazione, gioco, sfida con i propri limiti, mai una guerra contro gli altri. Ciò che va premiato è l’impegno, il progresso personale, la tenacia, non il podio. In questo clima, anche lo studente più riluttante può trovare la propria dimensione, scoprire un piacere inatteso nel muoversi e, cosa fondamentale, fare pace con il proprio corpo, apprezzandolo per ciò che è capace di fare.

Il Vero Successo è un Seme per il Futuro

Questo non significa cancellare l’agonismo. La competizione, se sana e ben guidata, è uno straordinario strumento di crescita. Ma deve essere il punto d’arrivo di un percorso, non la base di partenza. Prima bisogna costruire l’autostima e le competenze di base in tutti, inclusi i più competitivi, che devono imparare a vincere con umiltà e a perdere con grazia.

In definitiva, chi insegna scienze motorie a scuola è un seminatore di benessere futuro. Non sta allenando medaglie di domani, ma sta piantando i semi per una vita adulta più consapevole, sana e felice. Il suo vero trionfo non si vedrà su un podio sportivo, ma nelle scelte quotidiane dei suoi ex studenti: nell’adulto che sceglierà le scale al posto dell’ascensore, che troverà tempo per una corsa nel parco, o che a cinquant’anni si iscriverà a un corso di tango perché la scuola gli ha lasciato un bel ricordo del movimento.

È un lavoro paziente e silenzioso, che richiede meno nozioni tecniche e più strumenti umanistici. Servono empatia per capire le insicurezze, creatività per rendere il movimento un gioco e, soprattutto, una profonda passione per l’incredibile e unica meraviglia di ogni essere umano.

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