La tecnologia in classe: come, quando, quanto e perché

La tecnologia è uno dei temi più dibattuti del momento e non solo con riguardo alla scuola ma a tutta la nostra società. Tanto che la ministra dell’Istruzione, Valeria Fedeli, ha persino annunciato l’utilizzo dello smartphone in classe per scopi didattici. Dell’uso della tecnologia nelle nostre aule abbiamo parlato nel numero di novembre di Tuttoscuola in un articolo di Nicoletta Ferroni. Di seguito una sintesi.       

Sfoglia il numero di ottobre di Tuttoscuola e leggi l’articolo integrale                                   

Come abbiamo già detto qualche riga sopra, in una recente intervista, Fedeli, ha annunciato che “una commissione ministeriale s’insedierà per costruire le linee guida dell’utilizzo dello smartphone in aula”. È una buonissima notizia, c’è una presa di coscienza dell’esistenza del ‘problema’.  Sarebbe già  interessante, intanto, poter conoscere la composizione di questa commissione ministeriale e il poter constatare la presenza di tutte le competenze necessarie affinché possiamo avere la sicurezza che siano prese veramente in considerazione, e approfondite, tutte le posizioni, tutti gli studi più recenti, che vi sia consapevolezza della realtà sul campo, di ciò che succede nelle aule, di tutto quanto messo in evidenza dalle narrazioni dei docenti e dalle affermazioni degli studenti stessi. Sarebbe, infatti, importante evitare che a prendere il sopravvento siano o una declinazione burocratico amministrativa, o la prospettiva del mero controllo o, peggio ancora, fascinose, teoriche e astratte proposizioni didattiche affermate da chi la scuola la vede con il binocolo, magari anche rovesciato.

Il piano nazionale di formazione è stato avviato: un piano molto politico e molto ambizioso che si pone l’obiettivo di coprire tutte le tematiche previste dalla legge e riguarda tutti gli ambiti afferenti ai profili professionali della scuola, sebbene non siano ancora ben individuati né definiti. Dunque, ora, non resta che sperare che le imminenti, a detta della Ministra, linee guida, non diano anche per scontate competenze che non esistono o non sono sufficientemente e largamente diffuse.

È opportuno rendersi conto che le professionalità della scuola, tutte, in una storica mancanza di un preciso coerente e ben delineato profilo e di un’adeguata e ben strutturata formazione iniziale, per la gran parte si sono autoformate, sul campo e oltre, in modo spontaneo, volenteroso e, nel migliore dei casi per senso di responsabilità. L’amministrazione, per anni, in assenza di un progetto sistemico, di organizzazione, di risorse e mezzi, si è affidata a questo spontaneismo e non si è preoccupata di altro, se non di far passare per ‘valorizzazione’ della professionalità l’avanzare di nuove richieste e l’assegnazione, al personale della scuola, di sempre nuovi compiti cui far fronte ‘in qualche modo’. 

Nel prevedere e predisporre la formazione digitale del personale della scuola, il problema che si afferma, ancora una volta, è quello di “quale” formazione. Perché non ci si areni sull’alfabetizzazione informatica di base, nemmeno ancora diffusa in tutto il personale, bisogna definire correttamente le competenze e il loro collegamento indissolubile con fattori culturali più ampi, che guardano agli impatti e alle conseguenze, alla capacità di utilizzare sapendo scegliere lo strumento più adatto, padroneggiandolo, dominandolo senza esserne dominati.         

La parola competenza è quanto mai abusata e distorta nel suo reale significato. La formazione che dà luogo a vera “competenza” consegue la conoscenza che diventa padronanza, consapevolezza delle opzioni, dei vantaggi ma anche dei rischi e che quindi mette in grado le persone di  fare scelte appropriate: per quanto riguarda l’utilizzo delle tecnologie, è competenza quella dimostrata nel decidere quanto, quando, dove e come valersene, senza sentire il bisogno di applicare schemi preconfezionati o di mettersi al sicuro applicando “protocolli standard”.   

Il BYOD (Bring Your Own Device, porta il tuo dispositivo) è tutt’ora malinteso. Infatti, non si tratta semplicemente del fatto che ogni studente della classe abbia con sé il proprio “device”, ma occorre, per gestire e rendere proficua tale circostanza, conoscere e dotarsi dei mezzi adeguati, ossia adottare strumenti detti MDM (Mobile Device Management).

Il tanto propagandato “coding” nella scuola primaria va benissimo perché permette una familiarizzazione con il linguaggio binario attraverso il gioco. Può risultare senz’altro utile, ma quando siano previsti, graduali e ripetuti nel tempo, rimandi ad altri saperi, ovvero ci siano degli insegnanti competenti e consapevoli che possano farlo, anche negli altri gradi di istruzione. Altrimenti non si può che considerarla una iniziativa di limitato valore, un esercizio banale, assai elementare e persino, per molti, noioso.

Andare in un museo, a una mostra, e invitare gli studenti a fare ricerca sul web, lì per lì, sul loro smartphone, non sembra una soluzione brillante rispetto ad un’esperienza viva e reale. L’esperienza reale ha valore e significato quando stimola domande, lo scambio non virtuale di pensieri, d’impressioni, d’idee tra studenti e con l’insegnante. Una “visita” si prepara prima, si introduce lì per lì e si anima e accompagna passo, passo. Il rimando alla consultazione/ricerca sul web può esserci successivamente, anche per richiamare, alla mente e ai sensi, un’esperienza vissuta. Non sarebbe meglio vedere ragazzi, davanti alle opere d’arte, con un bel blocco per gli schizzi e/o gli appunti?

Numerose ricerche e studi hanno dimostrato, ad esempio, quanto la lettura e la consultazione di testi on line, o anche semplicemente su supporto informatico, dia come risultato una minore ritenzione mnemonica e uno scarso apprendimento rispetto alla lettura e consultazione su supporto cartaceo. È anche messo in discussione lo stesso idolatrato ‘multitasking’,  come avvertono gli studiosi dell’Università di Stanford: il cervello di chi somma più attività lavora male, fatica a distinguere ciò che è importante da ciò che non lo è. Nel campo delle informazioni è stato osservato che le notizie raccolte non si consolidano e non si organizzano in modo ordinato.

Allo stesso modo non è da trascurare l’apprendimento dello scrivere a mano, come evidenziato da numerosi studi e ricerche che collegano tale attività al pensiero e quindi allo sviluppo di importanti facoltà mentali.

Se la tecnologia ci fa “perdere capacità” dovremmo saper evitare di perdere “facoltà” e riuscire ad arginare la totale dipendenza da strumenti che utilizziamo ma che non “possediamo veramente” in quanto dipendiamo da numerosi fattori dei quali non possiamo avere il controllo: energia, connessione etc. Ciò vale anche per le innumerevoli “app” che sempre più si propongono di sostituire il nostro “fare, organizzare, calcolare, capire, scegliere, ricordare… Pensare”.

In moltissimi casi le app sostituiscono l’esercizio della memoria: pensiamo a quanti numeri di telefono conoscevamo e ricordavamo una volta, “a mente” e al panico nel quale ci troviamo oggi, quando perdiamo l’accesso alla nostra rubrica! Non soltanto la scrittura, il calcolo, la memoria, sono tante le capacità e facoltà intellettuali che richiedono l’esercizio ripetuto con costanza e assiduità.  Serpeggia l’idea che il passaggio “a scuola” sia irrilevante, dal momento che “con il titolo di studio si fa poco” e perché “tra internet ed app anche se non sai, te la puoi ‘cavare’ lo stesso”. Non c’è niente di più sbagliato e pericoloso e chi amministra, chi investe le risorse pubbliche destinate all’istruzione, settore fondamentale e strategico per lo sviluppo e la vita stessa del Paese, non può certo far finta di non sapere o declinare ogni responsabilità sperando di poterla affidare ad un logaritmo.

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