La scuola che disobbedisce

Il 28 ottobre 1967, a quattro mesi dalla sua morte, il tribunale di Roma in appello condannava Don Lorenzo Milani per la sua risposta ai cappellani militari che sulla Nazione avevano commentato con queste parole la scelta dell’obiezione di coscienza: “Un insulto alla Patria e ai suoi caduti la cosiddetta obiezione di coscienza che, estranea al comandamento cristiano dell’amore, è espressione di viltà”. Il Priore aveva deciso di confrontarsi con i suoi studenti e di rispondere, con i suoi modi bruschi e diretti, perché “Un sacerdote che ingiuria un carcerato ha sempre torto. Tanto più se ingiuria chi è in carcere per un ideale. Non avevo bisogno di far notare queste cose ai miei ragazzi. Le avevano già intuite. E avevano anche intuito che ero ormai impegnato a dar loro una lezione di vita” così scrive nella “lettera ai giudici”, il testo che gli costò il processo per cui fu condannato in appello.

Sulla necessità di intervenire, anche a costo di mettere a rischio la propria libertà personale il Priore di Barbiana non aveva dubbi: “Dovevo ben insegnare come il cittadino reagisce all’ingiustizia. Come ha libertà di parola e di stampa. Come il cristiano reagisce anche al sacerdote e perfino al vescovo che erra. Come ognuno deve sentirsi responsabile di tutto. Su una parete della nostra scuola c’è scritto grande ‘I care’. E il motto intraducibile dei giovani americani migliori. ‘Me ne importa, mi sta a cuore’. E il contrario esatto del motto fascista ‘Me ne frego’”.[1]

Può la scuola mostrarsi tiepida o neutrale davanti alle ingiustizie? Può il maestro, inteso come riferimento educativo e modello di vita, girarsi dall’altra parte quando assiste ad atteggiamenti che vanno contro gli ideali di accoglienza indiscriminata che la animano?

Noi crediamo di no. Don Lorenzo Milani non agì d’impulso, ma colse l’occasione del testo dei cappellani militari in pensione, per riflettere sul concetto di Patria, di libertà, di giustizia sociale. La scuola non deve fare politica, sostiene il politico preoccupato che gli studenti possano occuparsi del “bene comune”. E a cosa dovrebbe servire allora la scuola? A trasmettere conoscenze, ad insegnare le addizioni e i verbi in latino? Concordiamo che la scuola non debba avere una visione partitica della realtà, ma crediamo fortemente che non si debba mai perdere la cura e l’attenzione verso il bene comune, inteso come l’ambiente da salvaguardare, l’altro da accogliere, il presente da migliorare.

Come Don Milani, molti docenti più o meno noti, hanno deciso di mobilitarsi per il bene comune, anche a rischio di essere processati o di passare per matti.

Don Bosco, mentre era impegnato nella costruzione di un luogo dove fare scuola per migliaia di giovani abbandonati da tutti e sfruttati da padroni senza scrupoli, fu considerato matto e per poco non finì in manicomio[2]. Questo perché credeva fosse ingiusto obbedire alle leggi e alle regole del buon senso che trascuravano le masse di giovani, spesso soli e abbandonati, che vagavano per Torino, mettendo a rischio la loro vita.

È giusto obbedire a una legge considerata moralmente ingiusta? Nel corso del tempo c’è chi ha deciso di farlo e chi si è rifiutato.

Tra essi troviamo il giovane docente Aldo Capitini, padre della marcia della pace “Perugia – Assisi”, docente universitario nel secondo dopoguerra e figura di riferimento per la pedagogia italiana. In piena era fascista Capitini si schierò apertamente contro il regime andando contro le leggi attuali e nel 1933 Giovanni Gentile “lo pose di fronte una scelta: iscriversi al Partito fascista o dimettersi dal ruolo di segretario della Normale che aveva fino ad allora ricoperto.”[3] Capitini perse il lavoro, ma non la dignità.

Don Milani, Don Bosco, Aldo Capitini sono solo alcuni esempi di docenti appassionati, coerenti, coraggiosi che hanno operato la loro scelta tra il dover seguire una legge (scritta o meno che sia poco importa) considerata ingiusta o ascoltare la propria coscienza di educatori e di insegnanti.

Oggi come ieri sulle loro orme camminano tanti uomini e donne coraggiose, che non accettano di obbedire ad alcune leggi considerate ingiuste e per questo ne pagano le conseguenze. Oggi il problema non è l’obiezione di coscienza, che è divenuta un diritto, né l’adesione al partito Fascista, sciolto e vietato dalla nostra Costituzione. Oggi il problema è scegliere se far morire in mare decine di persone colpevoli di scappare da guerre e morte certa. Oggi il volto di chi disobbedisce alle leggi è quello di una giovane capitana coraggiosa, Carola Rackete, che incarna ideali di impegno e giustizia sociale. Perché, don Milani ce lo ricorda, l’obbedienza non è più una virtù e davanti alla morte del prossimo non possiamo girarci dall’altra parte.

[1] Don Milani, Lettera ai giudici, consultabile, anche on line sul sito: https://www.ascformazione.net/download/fad/Don%20Lorenzo%20Milani%20-%20La%20Lettera%20ai%20giudici.pdf
[2] Teresio Bosco, Don Bosco, una biografia nuova, Elledici, Torino, 1979 (Edizione attuale 2017)
[3] Livia Romano (a cura di), Capitini, Educazione, religione, non violenza, Editrice la Scuola, Brescia, 2016