La continuità didattica buttata dalla finestra rientra dalla porta?

C’era una volta una norma di legge che prevedeva una congrua presenza dei docenti sulla stessa sede in funzione della continuità didattica: “il miglioramento dei processi di apprendimento e della relativa valutazione, nonché la continuità didattica, sono assicurati anche attraverso una congrua permanenza dei docenti nella sede di titolarità” (art. 3 della legge 53/2003).
Quella “congrua permanenza” era stata tradotta nel decreto legislativo 59/2004 in almeno due anni.
Quello della mobilità dei docenti è un fenomeno di ampia portata. Come documentato nel “1° Rapporto sulla qualità nella scuola” di Tuttoscuola, il tasso di mobilità per trasferimenti di sede o passaggi ad altro ordine di scuola raggiunge il 10-12% a seconda dei settori scolastici. Ci sono province come La Spezia dove oscilla tra il 17 e il 26%. Insomma fino a un quarto dei docenti l’anno scorso ha cambiato cattedra e sede alimentando un carosello che certo non favorisce la continuità didattica. Anche perché alla mobilità vanno aggiunti i pensionamenti, particolarmente elevati nella scuola, dove raggiungono una media del 7% nella secondaria di I grado.
Meno di un anno fa i sindacati della scuola, in forza del potere che consente di disapplicare materie di natura contrattuale (mobilità del personale) hanno disapplicato quelle norme anti mobilità, e così la possibile congrua permanenza dei docenti nelle stessa sede è saltata.
La continuità didattica non è però un valore di destra o di sinistra e l’attuale maggioranza cerca di ripristinarla, inserendo nel ddl 2272ter all’esame della Camera questa disposizione: “Con decreto del Ministro della pubblica istruzione d’intesa con il Ministro dell’economia e delle finanze sono definite le condizioni per assicurare la massima stabilità dell’organico anche attraverso nuovi parametri che ne individuino la consistenza funzionale all’ottimale e stabile funzionamento delle istituzioni scolastiche. Il predetto decreto determina i criteri e le modalità per la permanenza pluriennale dei docenti nella sede assegnata, prioritariamente riferito, in particolare, a quelli di sostegno, a quelli impegnati nelle scuole delle aree a rischio e nelle classi funzionanti negli ospedali…”.
La “congrua permanenza” di cui parlavano le norme Moratti è diventata più esplicitamente una “permanenza pluriennale“: basterà questo minimo cambio di denominazione ad evitare la reazione sindacale per questa “invasione di campo” in materia contrattuale?