ITS, Ricciardelli: ‘Serve una grammatica per la filiera dell’istruzione tecnica’
Valerio Ricciardelli, ingegnere e Maestro del Lavoro, ha operato per più di trent’anni presso il gruppo internazionale Festo, ed è stato Presidente ed Amministratore Delegato della Festo CTE, società italiana attiva nel settore della consulenza e della formazione nel campo del manufacturing. Ha fatto parte di numerosi organismi internazionali in qualità di esperto di Technical Education, intesa come leva strategica per generare crescita economica e sociale sostenibile, finalizzata all’Employability. Ha introdotto in Italia le prime esperienze di Formazione Tecnica Applicata Superiore. Ecco l’intervista rilasciata a Tuttoscuola su un tema di grande attualità come quello dell’istruzione tecnica superiore.
Ingegnere, l’attuale governo ha in agenda un forte investimento nell’Istruzione Tecnica Superiore. Ha suggerimenti da dare?
“Da tempo suggerisco, a chi dovrebbe occuparsene, di attivare gli “Stati Generali” per discutere su come l’Istruzione Tecnica possa essere leva strategica per supportare una crescita economica sostenibile e immediata di una parte importante del nostro sistema industriale (siamo il secondo Paese manifatturiero in Europa), e nel contempo generare nuova occupazione qualificata e stabile e prevenire perdite occupazionali conseguenti a Industry 4.0. Se non ci fossero le condizioni per gli Stati Generali si potrebbe optare su un gruppo ristretto di esperti di riconosciuta competenza, a cui dare l’incarico di scrivere, in brevissimo tempo, un piano concreto delle cose da fare e di come farle, partendo dalla priorità dell’istruzione tecnica terziaria, quindi degli ITS. Bisogna muoversi subito, ma con attenzione. Non ci devono essere, come nel passato, esperimenti sporadici. Occorre una visione complessiva dell’argomento e un approccio olistico perchè tutte le parti si legano l’una all’altra e quindi niente misure spot!”.
Quali sono i caratteri principali del Piano che lei propone?
“A mio giudizio il nostro sistema Paese ha bisogno di una Technical Education che si articola su tre livelli: low(equivalente della formazione professionale), medium (equivalente dell’istruzione tecnica quinquennale) e high(equivalente degli ITS, annuali e biennali). Perchè il Paese ha bisogno di questi tre livelli? Semplicemente perchè se si osserva l’organizzazione delle imprese industriali, dei loro processi chiave, dei trend in atto nel sistema competitivo del manufacturing mondiale, si osserva che i profili professionali del prossimo futuro (perchè bisogna guardare a quelli, non ai profili di oggi) si articolano sui tre livelli citati”.
Come si fa l’analisi dei bisogni?
“Solitamente quando si discute di analisi dei bisogni, riferendosi alle competenze necessarie, si pensa che la risposta debba essere data da Confindustria o associazione industriali o camere di commercio e talvolta addirittura dalle società di lavoro interinale. Tutte organizzazioni che non sempre conoscono a fondo il problema. C’è un sistema più preciso. Se noi analizzassimo il portfolio di prodotti e servizi delle top 20-30 società di consulenza e formazione italiane, tedesche e europee, conosceremmo immediatamente:
– Il sistema economico in cui operano e quindi il mercato e i clienti, ma tutto già clusterizzato;
– I fattori competitivi di questo mercato/clienti e loro clienti e anche i trend futuri;
– Le dinamiche dei processi di cambiamento organizzativo;
– I profili professionali chiave ad alta employability;
– Le competenze occupazionali, e tanto altro ancora.
Se guardo l’offerta formativa e consulenziale delle società che si occupano di queste cose scopro che ci sono nuove e interessantissime politiche di manutenzione, anche a fronte di Industry 4.0, scopro che le lavorazioni meccaniche e il controllo numerico sono completamente cambiati, scopro come si stanno modificando questi mestieri. Insomma, scopro tutte le varianti del mestiere originale che sta scomparendo ed ho una informazione più ricca”.
Può fare un esempio?
“Se analizzo l’offerta di formazione tecnica di molte società private, per esempio quella della Siemens, mi accorgo che più del 50% dei loro corsi riguarda argomenti che dovrebbero far parte della offerta istituzionale, dove i curricula non sono stati aggiornati. Poi è chiaro che c’è una percentuale di nuovi contenuti innovativi che dovranno sempre essere erogati dai know how owner, ma un conto sono i contenuti innovativi che competeranno sempre a loro, un conto sono i contenuti che ormai sono diventati la piattaforma di base dell’istruzione tecnica istituzionale. La riprogettazione della nuova istruzione tecnica richiede di sapere come distribuire le cose tra questi due mondi”.
Serve cioè un criterio, un modello…
“Per fare tutte queste cose serve un approccio metodologico e quindi una grammatica di base che consente dapprima di modellizzare e rappresentare tutti i sistemi coinvolti e poi di farli comunicare tra loro rispetto agli obiettivi comuni a cui devono tendere. Per indicare che la technical education è una leva strategica per l’economia e l’occupazione, ho coniato l’acronimo TE4PIE che significa:
- Technical education for P, che sta per produttività e performance in generale
- Technical education for I, che sta per innovazione e per attrazione di investimenti
- E infine TE for E che sta per employability”.
Può approfondire quest’ultimo punto?
“Si tratta in primo luogo di individuare i profili professionali, le competenze che servono per sostenere l’economia. Però sulle competenze occupazionali non c’è chiarezza. Quando si ragiona sui profili professionali bisognerebbe, per ciascuno, individuare prima l’employability, che è una funzione che si modifica nel tempo, dipendente dalle variazioni dei profili. Il problema non è solo mettere in contatto domanda e offerta di lavoro, ma fare in modo che l’offerta sia appetibile per la potenziale domanda o per stimolare nuova domanda: per fare ciò si devono avere le competenze che realmente necessitano al mondo del lavoro. Lo diceva già Gallino nel 1998: “combattere la disoccupazione significa far sì che il maggior numero di giovani diplomati e laureati risulti agli occhi delle aziende occupabile nel momento stesso in cui finiscono gli studi, se non ancor prima, e per un altro, preservare la occupabilità degli occupati il più a lungo possibile” Come si vede l’occupabilità è fondamentalmente legata alla disponibilità delle competenze. L’occupabilità è spinta dalle competenze; è un processo push! Bisogna mettere sul mercato del lavoro saperi, competenze, profili professionali nuovi e tutto ciò spinge l’occupabilità.
Non è il mercato del lavoro che deve tirare le competenze, è esattamente il contrario. Il giorno in cui avremo almeno 40.000 diplomati ITS all’anno, con i profili giusti, l’occupabilità è automatica. Se invece aspettiamo che il mercato del lavoro, magari rappresentato dalle agenzie di lavoro interinale, ci dica di cosa ha bisogno non andiamo da nessuna parte. Questo è l’errore che è sempre stato fatto, non capire che il processo è push e non pull!”.
Che cosa si dovrebbe cambiare sul versante dell’offerta formativa?
“Per fare queste cose, e farle bene, non è sufficiente mettere attorno al tavolo degli esperti: la “grammatica di base” richiederebbe di definire bene il “capitolato” del lavoro che dovrebbe essere fatto e le “expertise” di cui si avrebbe bisogno. Per fare le cose bene serve sempre un metodo. Un conto è la progettazione di un corso, un conto è la riprogettazione del Sistema TVET di un Paese”.
Da dove partire?
“Sono convinto che si debba partire dagli ITS. Ma per che numeri? A regime servono almeno 40.000 diplomati all’anno. E occorre andare a regime in due, tre anni al massimo. Qui il problema non è la progettazione dei profili ma la costruzione del sistema. I profili nell’ambito industriale potrebbero essere una decina o poco più, tra settore industria e settore terziario avanzato. La logica è sempre la stessa: fare delle figure “madri” che poi le aziende “curvano” o “customizzano” sulla base delle loro necessità. Sulla durata degli interventi ritengo che si debbano articolare su due livelli, intermediate (un anno da 1200 a 1400 ore) e advanced (due anni). È un tempo più che sufficiente, perché poi la “customizzazione delle imprese” c’è sempre. Il primo anno potrebbe essere chiamato percorso professionalizzante e il secondo master professionalizzante. Il territorio di sbocco è evidentemente costituito dalle quattro regioni dove sono concentrate l’85% delle aziende interessate: Piemonte, Lombardia, Emilia, Veneto. Poi si possono fare degli interventi numericamente minori in altre regioni, ma 35.000 vanno nelle 4 regioni indicate”.
Come fare questi numeri?
“È impossibile usare il modello organizzativo delle fondazioni, che è assolutamente precario. Per costruire bene il sistema è necessario:
– Conoscere bene cosa serve ed essere in grado di costruire il giusto portfolio di servizi, quindi conoscere i contenuti in ogni dettaglio;
– Individuare la struttura produttiva/erogativa dei contenuti per alti numeri;
– Costruire un sistema organizzativo stabile (non le fondazioni e le università) che deve avere la piattaforma di appoggio sugli istituti tecnici più organizzati che danno luogo a istituti per la formazione superiore associandosi con le più rinomate società di consulenza e formazione italiane e europee che sono i soggetti essenziali per i contenuti professionali e per il processo di placement”.
Ammesso di far tutto per bene, c’è il problema della ormai cronica disaffezione verso le professioni tecniche. Come affrontarlo?
“Serve un rivoluzionario percorso di orientamento e la formazione, una volta per tutti, di veri e competenti orientatori nella scuola. Comunque, il processo di orientamento dovrà far parte del progetto complessivo. Le competenze ci sono”.
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