
I test Pisa-Invalsi valutano solo l’intelligenza verbale e logico-matematica penalizzando le altre

Stando ai dati contenuti nel Rapporto 2025 dell’Invalsi la scuola italiana sta abbastanza male, come Tuttoscuola ha rilevato a caldo nella sua newsletter settimanale, e ancora una volta i media (ma non solo loro) hanno intonato il consueto lamento sul suo irreparabile fallimento, non contraddetto dai voti straordinariamente positivi (ma quanto affidabili?) assegnati ai candidati della maturità 2025, resi noti dal MIM il 4 agosto, in plateale contrasto con l’esito delle prove Invalsi.
L’unico dato positivo è la diminuzione della dispersione scolastica esplicita (cioè quella dei 18-24nni che non conseguono un diploma di scuola secondaria superiore), scesa al 9,8% (sette anni fa era al 14,5%), cui fa da riscontro assai negativo un importante aumento di quella implicita: un fenomeno che l’Invalsi ha cominciato a misurare dal 2019, avvalendosi dell’esito dei test nazionali di italiano e matematica (obbligatori) sostenuti dagli studenti dell’ultimo anno, i maturandi: se da una parte sono sempre di più gli studenti che riescono a diplomarsi, dall’altra, come risulta dai test, il livello reale di competenze di molti diplomati è assolutamente insoddisfacente. Secondo l’Invalsi solo poco più del cinquanta per cento di chi affronta l’esame di maturità raggiunge livelli sufficienti in italiano, e in matematica meno della metà. Le scuole del Sud hanno una percentuale di studenti che l’Invalsi definisce “fragili” quadrupla rispetto a quelle del Nord e, all’opposto, gli studenti “eccellenti” sono meno di un terzo di quelli settentrionali.
Così, mentre l’Italia dovrebbe agevolmente tagliare entro il 2030 il traguardo europeo del 9 per cento di dispersione esplicita, avremo anche una elevata percentuale di diplomati che risultano in realtà impreparati. Ma è così? Davvero l’esito di quei test può essere considerato come una conferma senza scampo del giudizio perentorio sul nostro sistema educativo dato dal Censis nel suo ultimo Rapporto (dicembre 2024): “Siamo un Paese di ignoranti?”. Mi permetto di sollevare qualche dubbio sulla validità del concetto di “dispersione implicita”.
L’approccio statistico può ingannare
Come si fa a quantificare la dispersione implicita? A differenza della dispersione esplicita, che è legata all’abbandono scolastico, facilmente rilevabile dall’andamento delle iscrizioni, la dispersione implicita, secondo il modello elaborato dal presidente Roberto Ricci (che è dottore di ricerca in metodologia statistica per la ricerca scientifica), si fonda sui risultati dei test standardizzati Invalsi in italiano e matematica. Si tratta di una valutazione cosiddetta sommativa, cioè istantanea, che può essere influenzata da circostanze contingenti ma anche da una serie di fattori di varia natura, da quelli economici a quelli socio-culturali, dai metodi didattici a motivi più legati alla personalità individuale.
L’obiezione più rilevante è però un’altra: i test tendono a misurare prevalentemente le competenze logico-matematiche e verbali, trascurando o svalutando altre forme di intelligenza, attitudini e capacità. Ma le competenze logico-matematiche e verbali afferiscono in pratica solo a due tipologie di intelligenza, quella linguistica e quella logico-matematica, che sono le più facilmente misurabili attraverso i test. Esistono tuttavia diversi altri tipi di intelligenza: secondo il noto psicologo Howard Gardner, citatissimo ma ignorato dai fautori dei test del tipo Pisa-Invalsi, altre sei: spaziale (di chi sa pensare e elaborare immagini visive), corporeo-cinestetica (quella degli atleti, o dei ballerini), musicale (dei musicisti), interpersonale (di chi ha attitudine a interagire con altri), intrapersonale (capacità di introspezione), naturalistica (attitudine a interagire con il mondo naturale).
I test, che prevedono risposte chiuse, o multiple ma con un’unica soluzione corretta, non si prestano evidentemente a valutare la creatività, il pensiero laterale o divergente, la disposizione a trovare soluzioni innovative a problemi complessi. Servirebbero modelli di prove capaci di stimolare e evidenziare i risultati ottenuti dai possessori di questi altri tipi di intelligenza, che non è possibile rilevare con prove standardizzate.
Una via europea alla valutazione
Ferma restando la continuità del lavoro dell’Invalsi, tenuto ormai anche per legge e per vincoli internazionali a fare il suo lavoro (svolto peraltro con grande rigore) applicando le metodologie valutative standardizzate, andrebbe incoraggiata la ricerca educativa di carattere eminentemente psico-pedagogico (magari sostenuta dalle nuove tecnologie informatiche, che si prestano alla personalizzazione della didattica), in alternativa al mainstream valutativo dominante, che è quello imposto di fatto dagli USA e dai loro economisti dell’istruzione negli ultimi 30 anni, teso a quantificare e misurare coi test le tre performance di base ritenute efficaci indicatori di un futuro di successo economico degli studenti e dell’intera società: lettura (reading literacy), matematica (mathematical literacy) e scienze (scientific literacy). Un modello questo, recepito dall’Invalsi anche per le prove nazionali, prioritariamente finalizzato alla ricerca dello sviluppo economico (l’OCSE, la Banca mondiale, il Fondo Monetario Internazionale finanziano le ricerche standardizzate), non certo di quello civile e sociale…
Forse l’Italia sarebbe più attrezzata, col suo ricco patrimonio culturale e la sua tradizione umanistica, a elaborare modelli valutativi multifattoriali alternativi a quelli test-dipendenti. C’è da chiedersi perché il ministro Valditara, che della diversificazione e personalizzazione degli itinerari formativi, compresi quelli a carattere pratico, ha fatto la sua bandiera, non prenda l’iniziativa di promuovere queste modalità di valutazione più complesse, anche sollecitando il mondo della ricerca, a partire da quella universitaria, a occuparsene.
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