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Giornata per l’eliminazione della violenza contro le donne: riflettiamo sull’uso della lingua

di Camilla Gili

“Qualcosa in fondo al cuore di ogni essere umano […] si aspetta invincibilmente che gli venga fatto del bene e non del male”, così scriveva Simone Weil in un passaggio di “La personne et le sacré” ed è in questa aspettativa che si può riconoscere, a ben vedere, la matrice della forza e, al tempo stesso, della vulnerabilità umana.

L’ingiustizia che abita ogni forma di male subìto è proprio, oltre al dolore che causa, il tradimento di questa aspettativa: perché mi viene fatto del male? Nell’arrovellarsi alla ricerca di questa risposta a volte si perde di vista quello che dovrebbe essere l’obiettivo primario, ovvero l’istinto di liberarsi da ciò che fa male.

Esiste una particolare forma di male subìto che fa dell’assenza di ragione il suo principio costituente fino a giungere al paradosso del voler distruggere dicendo di amare: l’abuso domestico.

In questa giornata, 25 novembre, dedicata all’eliminazione della violenza sulle donne vogliamo affrontare da una particolare prospettiva questa tematica dolorosa, intollerabile, chiedendoci: quale ruolo gioca nella relazione d’abuso la lingua?

La relazione abusante non si esprime soltanto attraverso evidenti condotte violente che riguardano il maltrattamento fisico. Ma l’assoggettamento, tipico di queste relazioni, passa anche attraverso l’uso della lingua della persona che abusa, una lingua costruita per produrre nella vittima specifici stati mentali.

Descrivere quelle particolari forme linguistiche impiegate e gli stati mentali che producono in chi le subisce significa gettare luce sulle ragioni profonde della violenza domestica.

Questo è uno degli obiettivi della ricerca di Raffaella Scarpa, docente di Linguistica medica e clinica presso l’Università degli Studi di Torino, che nel saggio Lo stile dell’abuso. Violenza domestica e linguaggio (Treccani, 2021) indaga i meccanismi linguistici in cui si innesta l’abuso, attraverso lo studio di una raccolta di testi e testimonianze, di abusate e abusanti, iniziata nel 1998[1].

Ciò che emerge dalla ricerca è che il regime discorsivo dell’abusante corrisponde a un sistema linguistico fondato sulla menzogna, che induce l’assoggettamento attraverso una serie di peculiari comportamenti verbali, portando l’abusata a una situazione di dispercezione della realtà e alterando la sua capacità di giudizio.

Ciò su cui è necessario puntare l’attenzione è il nesso che esiste tra il movente dell’abusante e la sua espressione verbale: questo legame tra mondo interno del soggetto e forma linguistica emerge in quella particolare configurazione della lingua alla quale diamo il nome di “stile”, il luogo in cui si manifesta il soggetto anche al di là delle sue intenzioni.

Dunque, qual è lo “stile dell’abuso”?

Un sistema linguistico a più direttrici che agiscono di concerto e alle quali la professoressa Scarpa assegna dei titoli-istanza, che poi approfondisce lungo la trattazione:

  1. Costruzione del soggetto “tu sei così”
  2. Decostruzione del soggetto “tu non sei così”
  3. Creazione di realtà: “è stato così”, “sarà così”, “è così”
  4. Interdizione del soggetto: “te lo dimostro”
  5. Accerchiamento: “sono lì”
  6. Autorappresentazione: “non sono io”

 

Rimandando alla lettura del libro per approfondirli nella loro complessità e interezza, introduciamo la prima direttrice al solo scopo di dare un’idea del modo in cui si muove la ricerca linguistica sul fronte della comprensione e della lotta alla violenza di genere e del perché sarebbe importante portare questa prospettiva anche a scuola.

Costruzione del soggetto

Una delle costanti delle storie di violenza domestica risiede nella propensione dell’abusante a costruire discorsi che abbiano l’obiettivo di spiegare ciò che l’abusata è, attribuendole una personalità, determinate caratteristiche che lei, al contrario, è inabile a riconoscere (“sei proprio un miracolo… tu non ti vedi, non sai chi sei”; “te lo spiego io come sei fatta tu”; “tu non sai chi sei, amore”[2]).

La vera natura dell’abusata non viene inoltre riconosciuta, a dire dell’abusante, dalle persone a lei vicine, come parenti stretti e amici, acuendo l’idea che la donna sia un soggetto abbozzato, in attesa di riconoscimento e lavorando, parallelamente, a un allontanamento di lei dai suoi affetti, il che rappresenta un aspetto centrale nelle dinamiche di violenza domestica (“Hanno una perla in casa e non sanno chi sei”; “ciao, non devi pensare a quello che è successo, tu per loro sei un’estranea, ti avranno adottato, non sanno chi sei”).

L’abusante si autorappresenta come il redentore unico di un soggetto inconsapevole e bisognoso di istruzione e il suo sistema di potere è espresso, da un punto di vista linguistico, e non a caso, dal predicato.

Questo perché è da attenzionare? Un sistema di potere si fonda sulla sua capacità di produrre verità, stabilizzandola come dato verificato e reale e il predicato, in linguistica, ha proprio il ruolo di dire qualcosa su qualcosa o qualcuno.

Nel discorso d’abuso si evidenzia che il predicato collabora nella costruzione di frasi che hanno l’obiettivo di ridefinire l’identità altrui, attribuendo qualità e proprietà come si trattasse di un oggetto neutro, bisognoso di definizione.

Ma le spie linguistiche attraverso le quali si attua la “costruzione del soggetto” riguardano più livelli della lingua: dall’uso dei pronomi personali, a quello di avverbi e proposizioni, fino alla retorica.

Qualche esempio.

Gli avverbi sono in grado di intervenire in maniera rivilevante sul significato della parola ridirezionandola spesso con esiti di condizionamento e influenza la cui causa non viene percepita dall’interlocutore: “non riuscivo a capire cosa ci fosse in quelle frasi che mi mettesse completamente fuori uso, certamente qualcosa nelle parole che usava ma me ne sono resa conto molto dopo, lì per lì quello che sentivo era una specie di annebbiamento. Molto tardi ho capito che bastava che dicesse “sempre” che io mi sentivo violentata, quel “sempre” era falso, erano soltanto due sillabe ma mi facevano crollare il mondo addosso”.

Le proposizioni finali, per la loro funzione sintattica di proiettare un futuro anticipandolo e determinandolo, vengono impiegate dall’abusante per assicurarsi adesione e permanenza; le consecutive esprimono concetti di conseguenza con carattere di inderogabilità e predestinazione.

Ma se questa direttrice può avere dei tratti in comune con il discorso d’amore, che mirano a “fidelizzare” la vittima – nei testi analizzati ricorrono espressioni come “sei bellissima”; “sei elegantissima”; “sei quello che sei però non te ne accorgi”; “saremo sempre insieme”; “ci ameremo per sempre”; “sei nata per essere amata”; “ci amiamo così tanto che non ci lasceremo mai”) – nella seconda, denominata da Raffaella Scarpa “decostruzione del soggetto”, l’abuso prende forma in maniera evidente e passa attraverso lo screditamento: “è arrivato a dirmi che portavo sfortuna, che portavo il male ovunque andassi e producevo catastrofi, che facevo del male a chiunque mi stesse vicino, compresi i miei figli”;

ero convinta di portare male, ero certa che le persone mi tenessero a distanza perché questo si sentiva, ho iniziato a stare a distanza io da tutto e da tutti per risparmiarli e perché non si accorgessero di quello che ero, mi diceva cose terribili, non riesco a ripeterle. Non posso dire che ci credevo completamente, ma comunque credevo di poter essere quella bestia immonda che lui descriveva, ancora adesso, dopo tanti anni, ci sono giorni in cui penso “era tutto vero”.

Solo alcuni esempi, che non chiariscono la complessità di una materia vasta e, a tratti, indicibile ma che ci fanno comprendere quale potere abbia la lingua nel corroborare dinamiche di violenza e quanto sia importante trasferire a studentesse e studenti una comprensione profonda dei suoi meccanismi e un suo uso consapevole affinché possano difendersi dai suoi usi manipolatori e disinnescarne le storture.

[1] Un corpus di testi composto da: testimonianze di donne abusate raccolte in prima persona; testimonianze di uomini abusanti raccolte in prima persona; diari o taccuini di donne abusate tenuti nel corso della relazione d’abuso; testi scritti di donne abusate (lettere, biglietti, e-mail, sms) relativi al periodo della relazione d’abuso; testi scritti di uomini abusanti (lettere, biglietti, e-mail, sms) relativi al periodo della relazione d’abuso; testi orali di uomini abusanti raccolti dalle donne durante la relazione d’abuso.
[2] Le testimonianze riportate da qui in avanti sono vere e tratte dal corpus di testi analizzato in R. Scarpa, Lo stile dell’abuso, Treccani, Roma 2021.

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