Equità è conciliare il merito e il bisogno

Finalmente sembra che, stando almeno al vasto dibattito in corso sui principali quotidiani, la contemplazione (a volte un po’ masochistica) del disastro della scuola italiana stia per essere sostituita, o almeno accompagnata, da un positivo e propositivo confronto sulle finalità del nostro sistema educativo: sulla sua capacità di essere una scuola di tutti e per tutti, sulla sua qualità in termini di efficacia/efficienza, sul suo rispetto dello spirito e della lettera della Costituzione (art. 3: “E’ compito della Repubblica rimuovere gli ostacoli…”; art. 34: “I capaci e meritevoli, anche se privi di mezzi…”).

Da questo punto di vista si deve riconoscere che un importante apporto allo sviluppo del dibattito l’ha dato anche la decisione del governo e del ministro Valditara di inserire la parola merito (anzi Merito) nella denominazione del Ministero: per alcuni pleonastica perché implicita e/o già indicata dalla Costituzione, per altri sacrosanta perché finalizzata a combattere l’affondamento della scuola italiana sui fondali del disimpegno e della rassegnazione alla bassa qualità dei risultati.

L’ambivalenza del concetto di merito, sulla quale esiste una vasta letteratura, non consente di darne una definizione univoca e condivisa, ma si può dire che quella sulla quale si aggrega una più ampia convergenza da parte degli studiosi della materia (pedagogisti, sociologi, filosofi dell’educazione) è quella che la mette in stretta relazione con il concetto di bisogno utilizzando un termine che ne propone una sintesi, quello di equità. In campo educativo il massimo di equità si realizza riconoscendo da una parte il merito individuale (impegno, capacità, qualità delle prestazioni) e intervenendo dall’altra su vari piani (legislativo, organizzativo, didattico) a sostegno degli studenti più deboli o più fragili. Facendo insomma il contrario di quello che ha fatto storicamente finora la scuola italiana, che si è mostrata incapace di valorizzare le capacità in termini di sistema (fatte salve le eccellenze, che si sono valorizzate da sole) e ha abbandonato i più deboli al loro destino, come indicano gli altissimi tassi dispersione, che si sono ridotti solo negli ultimi anni (pur restando elevati) e con il sospetto che ciò sia stato dovuto soprattutto a un “abbassamento dell’asticella” generale (con relativa emersione del fenomeno della dispersione “implicita”).

Si ripropone così un dibattito, quello sull’equità della nostra scuola, e più in generale della nostra società, che ha avuto momenti importanti di confronto a metà degli anni Ottanta dello scorso secolo, quando fu al centro di una attività di ricerca e proposta intellettuale e politica nel segno del riformismo liberal-socialista in competizione con una ideologia marxista schematica, sospettosa nei confronti dei meritevoli e incapace di dare uno sbocco positivo ai bisognosi.

Oggi, a distanza di quasi quaranta anni, il problema dell’equità non è stato risolto e i termini della questione non sono cambiati. Ma è già importante che se ne torni a discutere.   

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