Educare alla gioia

Di Giuseppe Alesi

La scuola, pur parlando spesso dell’importanza di creare buone relazioni con gli alunni e della loro centralità, le ha frequentemente tradite e trascurate. In passato semplicisticamente perché si riteneva che comunque i bambini fossero bambini, biondi o bruni, alti o bassi, sempre bambini, da mettere in riga da subito e senza tante incertezze. Ogi per una accentuata indifferenza e mancanza di tempo da parte di adulti, in genere, estremamente indaffarati e affetti spesso da  accentuato narcisismo. Le diversità un tempo non avevano alcuna rilevanza, tranne quelle troppo vistose che comunque la scuola non la frequentavano. Tutti dovevano, a prescindere, far propria una immagine di alunno ideale, buono, obbediente e rispettoso e anche studioso, più si era vicini a quell’alunno modello, maggiormente si ricevevano approvazioni, voti positivi e successo scolastico. Essere irrequieto, poco obbediente, non aver freni, significava essere maleducati, ricevere richiami, punizioni e finire allontanati, sorte più o meno analoga toccava a chi si presentava sciatto, poco curato e magari anche con i “capelli rossi”.
La scuola è una cosa seria! Necessitano rigore, compostezza, disciplina, volontà, il gioco, la gioia, eventualmente dopo e soltanto a risultato positivo raggiunto. Chi per motivi diversi stentava, la cura suggerita erano un maggiore impegno e una superiore forza di volontà, che avrebbero sicuramente forgiato lo spirito e fatto superare ogni ostacolo.

Da sempre si è parlato di alunni, unico ombrello sotto cui i bambini e le bambine dovevano riconoscersi, si riteneva utile omologare, rendere tutti uguali, distinguere soltanto per macro categorie, con i grembiuli blu e il fiocco bianco i maschi, rosa  per le femmine. Apparentemente nulla di male, soltanto ossessiva ricerca di controllo, di ordine e armonia. Gli alunni si suddividevano semplicisticamente in buoni e cattivi, i buoni coloro che si integravano rispettosi e disciplinati, gli altri, come Lucignolo, che non ne volevano sapere per nulla, erano da mandar via con le buone, “lo studio non fa per te !”, o con le cattive, note, espulsioni e bocciature. ed era inoltre cosa buona non frequentarli, perché esempi negativi.

Di fronte a qualche critica mossa, soltanto in anni più recenti, settanta, ottanta, per l’eccessiva indistinta rigidità, i distinguo così marcati, le risposte dei docenti suonavano in genere così:

Faccio l’insegnante e non posso interessarmi delle condizioni di ogni alunno della mia classe”.in particolare di quelli irriverenti e scostumati. Non sono uno psicologo e poi il programma non riuscirei assolutamente a svolgerlo!”. Un dire frequente non molto tempo fa e presente in parte ancora oggi, malgrado i grembiuli non esistono più e sono passati quasi cinquantanni.

E giustappunto oggi che anche “agitati e molesti” ci devono essere, lo dichiara la Costituzione, si invocano insistentemente gli specialisti che si facciano carico di chi “zoppica”, di chi comunque crea problemi e anche per affrontare le tante educazioni aggiuntive non ritenute strettamente legate alle tradizionali materie d’insegnamento. Ma questo è giusto o è un fragoroso, mistificante errore? Un disimpegno che ancora divide, seleziona e frammenta, pur se in modo più accettabile, una tanto sfaccettata unità che sarebbe opportuno invece tenere unita e diretta però da un eccellente Maestro concertatore, tipo D. Borenboim, per trarre fuori eccelse armonie ?

Comunque sia la relazione con i riottosi è sempre stata complicata, talora disarmante e pochi, in definitiva, da sempre ci hanno più di tanto “perduto tempo”, quando alla fine qualche illuminato lo ha fatto, la soddisfazione per il successo, non sempre adeguatamente apprezzato, è stata veramente tanta e ripagava i fallimenti e l’impegno profusi ( Montessori, Don Milani, Lodi ). Non di rado era stato un semplice sorriso, una piccola attenzione, un mutamento nel rapporto interpersonale a determinare il cambio di rotta. Uno stile diverso di approccio, una considerazione, una valorizzazione affettuosa rivolta a chi di apprezzamenti ne ha sempre ricevuti ben pochi. Una relazione lontana dalle sonore bacchettate di un tempo che servivano a mettere rapidamente in riga e dall’indifferenza e poca considerazione spesso mostrata verso i meno fortunati.

Una scuola maggiormente attenta alle diversità, ai singoli, si è imposta gradatamente a partire dagli anni settanta e con molta fatica, incontrando, non di rado, forti resistenze mentali:

“E’ inutile portarsi dietro le zavorre!”.

Oggi il concetto dell’inclusione, di una scuola che abbraccia e aiuta tutti a raggiungere la più alta formazione possibile, è un dato teoricamente acquisito, anche le politiche europee lo auspicano e sollecitano ad investire, senza distinguo, sul capitale umano, ma non sempre le cose sono così scontate. Non di rado, infatti, a dirla tutta, in particolare in Italia, rincorrendo i più deboli e problematici, si sono sacrificati gli alunni migliori e dimenticati quelli con una marcia in più, le eccellenze.

Certo è da veri artisti essere vicini ai bravi, aiutare i meno brillanti e misurarsi con quelli che non sentono ragione di sorta. E’ difficile creare intimità,  avvicinarsi anche fisicamente a coloro che sono poco simpatici, che ne fanno di tutti i colori, ai disabili. E’ impegnativo  interessarsi di ciascuno alunno, creare sintonie e vere condivisioni con le famiglie. Per altro non è semplice archiviare la figura del vecchio docente, indiscusso e autorevole dispensatore di beni, ma quelli erano altri tempi, altre realtà, la strada allora era unica, prescrittiva e obbligatorio seguirla per tutti, docente incluso. Permettere ai sentimenti e alle emozioni individuali di fluire liberamente, ascoltare gli alunni, si considerava inopportuna perdita di tempo, creava confusione, si minava seriamente l’autorità del docente. In silenzio si ascolta la parola dell’insegnante e si apprende, senza commenti.

Sollecitare le intime riflessioni, essere esempio nel parlare sottovoce e nel tacere per ascoltare Lui, l’alunno, che parla, le cose importanti che ha da dire, senza considerale a priori inadeguate e banali, è ancora oggi considerata quasi una bizzarria, in genere tollerata nella scuola primaria. Bisogna essere insegnanti veramente speciali, straordinari Maestri, con caratteristiche e attitudini tali da concedere spazi, saper trascinare, valorizzare e dare entusiasmo, anche a chi non ne ha per nulla.

Sono essenziali i veri Maestri.

Da noi, al momento, ci sono oltre cinquecentomila precari in cerca di uno stipendio e i concorsi, quando si fanno, durano anni, un inaudito guazzabuglio dove è del tutto superfluo parlare di qualità e di Maestri. 

Sarebbe stata utile l’autonomia delle scuole anche nel reclutare direttamente il personale?

NOTICINA CONCLUSIVA

 Educare dal latino educere, significa trarre fuori quel tanto di positivo e di originale presente in ciascun giovane e questo è compito arduo, vuol dire aver fiducia nell’altro qualunque sia. Vuol dire saper accogliere, avere uno stile relazionale e comunicativo non comuni, che conosca e pratichi la forza dell’immedesimarsi, che si sforzi prima di capire, per successivamente educare e fornire istruzione e competenze. Vuol dire non accanirsi sul frammento, ma curare l’insieme, la persona, slanciarsi oltre il contingente, l’immediato, perché l’intero, osservava Aristotele, è qualcosa di più delle sue parti.

Sbrigativamente si preferisce spesso curare e anche male, vedi il recente rapporto Censis che ci definisce un paese di ignoranti*, la formazione cognitiva, il sapere, trascurando l’aspetto emotivo e relazionale, la visione olistica dell’essere umano, dando sostanza all’antica logica che la scuola istruisce e la famiglia educa. Si sottovaluta il fatto che la scuola in quanto comunità fornisce insegnamenti di vita e di libertà attraverso ciò che si studia e si legge, attraverso le parole e l’esempio dei grandi che ci hanno preceduto e degli adulti, che qui ed ora, insegnanti o non, sono di modello alle nuove generazioni. La scuola è una eccezionale palestra di relazione e confronto, dove si apprende a stare bene con gli altri e anche da soli con sé stessi, a rispettare le regole, a coniugare con equilibrio diritti e doveri, è concreta educazione civica.

Ti si dovrebbe certo insegnare  a parlare con proprietà di linguaggio, a trattare e padroneggiare la tecnologia, l’aritmetica e la geometria, anche più idiomi, a rispondere se interrogato, ma anche a tacere, ascoltando con attenzione e in silenzio, chi sta parlando. Ti si dovrebbe aiutare a riflettere, a conoscerti meglio, a ragionare con la tua testa delle tue cose e di quelle del mondo che ti circonda, dell’essere umano più in generale. Ti si dovrebbe rendere autonomo, capace di costruirti in libertà le tue personali idee, di perseguire, per tutta la vita, senza interruzioni e con piacere la conoscenza e sentirti parte di un insieme molto più ampio, un anello di una lunga infinita catena.

Ti si dovrebbe fornire, per concludere, una bella esperienza da ricordare con gioia per tutta la vita.

“Voglio che non ti manchi mai la gioia”** dice Vito Mancuso.

Voglio, però, che ti nasca in casa e ti nascerà, se sorge dentro di te”*** sosteneva Seneca scrivendo all’amico Lucio.

Ma se tu, ricordando sommariamente quanto scritto da Daniela Lucangeli, caro docente, te ne stai asserragliato dietro la cattedra con la schiena curva e lo sguardo basso, accartocciato su te stesso, non trasmetti nulla, soltanto grigiore emotivo, perché proprio a te manca la gioia.

La gioia di vivere non si compra, è un saggio e fantastico stile di vita che si costruisce per gradi attraverso la relazioni con Maestri eletti, genitori inclusi. Loro, con responsabilità, educano alla conoscenza, al sorriso, liberano dalla trappola della caverna di platonica memoria, ci invitano a scrutare più spesso dentro noi stessi, ad amarci, a provare piacere per l’altrui successo. Sono loro che esortano a considerarci già fortunati per essere nati in Italia e orgogliosi di essere gli eredi di Archimede, Dante, Galileo, Michelangelo.

Sono stati veri Maestri tutti coloro che rammentiamo da adulti con profonda nostalgia, gratitudine e stima, che ci hanno educato all’equilibrio e al buonsenso, ad usare più spesso il pronome noi, ad alzare lo sguardo per guardare oltre con gioia, a coltivarla dentro di noi come bene prezioso.

* 58° rapporto Censis sulla situazione sociale del paese Italia, 2024
**Vito Mancuso, Non ti manchi mai la gioia, Garzanti, 2023
***Seneca, Lettere morali a Lucio, Classici Mondadori

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