Dimensionamento della rete/1: per quale modello di scuola?

In passato l’istituzione di una nuova scuola era il risultato di un negoziato tra il ministero centrale e le comunità locali, magari con l’intermediazione dei parlamentari del territorio. Oltre alla rete delle scuole elementari costituita per far fronte al diffuso analfabetismo e a pochi istituti storici, soprattutto licei, presenti da prima dell’unità d’Italia, la maggior parte fu istituita nel secondo dopoguerra, per assecondare l’ampliamento dell’obbligo scolastico, soprattutto nelle zone rurali, e per lo sviluppo dell’istruzione tecnica e professionale richieste dalle realtà produttive locali.

Il supporto al funzionamento veniva attribuito ai comuni e alle province ed il sistema ha goduto per anni di una certa stabilità. Con l’introduzione della gestione sociale e degli organi collegiali il rapporto tra stato ed enti locali si aprì ad altri contributi, portatori di istanze provenienti dalla società e dall’economia, i quali premevano per introdurre sperimentazioni che soprattutto nella secondaria superiore fecero mutare la fisionomia degli indirizzi. Una stagione di riforme a legislazione invariata alla quale anche il ministero partecipò con proprie iniziative innovative. In non pochi casi ci fu una oscillazione delle iscrizioni e molte scuole aumentarono le loro dimensioni oltre che l’offerta formativa.

Tali modifiche ordinamentali apportarono un notevole aggravio della spesa pubblica che la politica non seppe o non volle utilizzare per espandere il valore dell’innovazione a beneficio di un miglioramento dei rapporti tra formazione e mondo del lavoro o sviluppo dei saperi e delle strategie didattiche; con la riforma Gelmini-Tremonti tutto venne “normalizzato”, consolidando quegli aspetti che proprio riscuotevano un grande interesse sociale, ma con una stretta sugli orari e gli organici, secondo parametri praticamente imposti dal ministero dell’economia.

La stagione dell’innovazione fece compiere un passo avanti al protagonismo delle scuole, che il ministero cercò in tanti modi di contenere, ma che ebbe un supporto politico da diversi fronti per trasformare la partecipazione in più evidente autonomia. Su questo fronte erano schierati sia coloro che pensavano ad una scuola autonoma come un comune, sia chi ne auspicava una prospettiva quasi aziendale. Entrambe le posizioni costituivano una grossa preoccupazione per l’amministrazione scolastica e il compromesso fu sì l’attribuzione della personalità giuridica ad ogni istituto di qualsiasi ordine e grado in qualunque territorio collocato, ma la decretazione di un’autonomia “funzionale”.

Appena riconosciuta una tale prerogativa vennero stabiliti i parametri quantitativi ai quali le scuole dovevano corrispondere, accorpando abbastanza sommariamente plessi e sedi scolastiche, in modo che al nuovo istituto così formato fosse assegnato un dirigente ed un direttore dei servizi amministrativi. In quel periodo iniziarono momenti di instabilità, relativi al variare della popolazione scolastica sempre più vicina ai limiti massimi, al numero dei docenti sempre in crescita, senza tenere conto delle variazioni che erano intervenute nell’organizzazione degli enti locali, soprattutto per i comuni più piccoli nel frattempo colti dallo spopolamento, nonché dell’abolizione delle competenze originarie delle province.

Per dare un’idea della riduzione del numero di istituzioni scolastiche che è in corso da un ventennio: nel 2000-01 erano 11.592, nel 2012-12 9.139, nel 2021-22 8.160. Ora si prevede che nel 2031-32 saranno 6.885: in trent’anni le istituzioni scolastiche (quindi anche il numero di presidi, responsabili amministrativi, etc) si sarà ridotto del 40%.

 

Per approfondimenti:
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