Corsi in inglese? Grazie no. Firmato Vertecchi

Alle ragioni che inducono a considerare sbagliata e ‘provinciale’ la deferenza nei confronti della lingua inglese dedica il suo consueto intervento su Tuttoscuola il pedagogista Benedetto Vertecchi, pubblicato nel numero di giugno del nostro mensile.

Pensare di ridare smalto al sistema universitario italiano sostituendo scadenti insegnamenti nella lingua patria con insegnamenti ancora più scadenti in inglese”, scrive Vertecchi, “è un segno della decadenza cui è giunta non tanto l’università (in Italia ci sono ancora tanti studiosi in grado di promuovere gli studi in italiano, e di comunicare, tra pari, in altre lingue per ciò che concerne l’impegno nella ricerca), quanto il mediocre ceto accademico e politico che è venuto insediandosi  nei centri del potere”.

La scelta dell’inglese non accanto ma in sostituzione dell’italiano rivela una “vocazione subalterna” ed evidenzia l’“atteggiamento dimesso del provinciale” da parte di chi, pendendo atto delle men che mediocri prestazioni delle università italiane nei ranking internazionali, pensa di affrontare il problema attraverso la scorciatoia dell’uso dell’inglese nei corsi e nelle pubblicazioni (anche in quelle italiane) anziché puntando sulla via maestra dello sviluppo della ricerca.

La principale obiezione alla dilagante anglofilia linguistica, avanzata anche da Tullio De Mauro, sembra tuttavia quella relativa alle gravi limitazioni al pieno e consapevole controllo dei processi mentali, e in fin dei conti alla autonomia e alla libertà dell’individuo, che ci sembra quasi inevitabilmente derivare dalla rinuncia a pensare, cioè a riflettere, dedurre, astrarre, insomma ragionare, nella lingua che si conosce meglio, quella materna. Il bilinguismo perfetto è, e sarà a lungo, un fatto assolutamente eccezionale.